Notizie dal fronte – 9: autodistruzione a tempo

Nell’autunno del 2003, dopo circa otto mesi di terapia, provai addirittura ad andare a lavorare.
Trovai un posto in una focacceria, ma non fu un caso, ero alla ricerca di qualcosa che mi desse la possibilità di mantenere gli orari in cui mi recavo in palestra, o che almeno non li modificasse troppo.
Dovevo svegliarmi alle cinque del mattino, presentarmi al lavoro alle sei e mezza e restarci fino alle undici circa così, quando il fisico reggeva, una volta lasciata la focacceria potevo recarmi direttamente in palestra, ma spesso finivo per andarci nel pomeriggio a causa della stanchezza.
Il mio aspetto iniziava a svelare le mie reali condizioni fisiche: ero scavato, esile, gli occhi perennemente segnati e il lavoro prevedeva di stare per cinque ore accanto a quattro forni che emanavano temperature molto elevate.
La vera fatica però non era rappresentata dallo sforzo fisico, ma dalla difficoltà di alzarmi dal letto al mattino, trovare il coraggio per uscire di casa ogni giorno era una tortura, anche perché non andavo a lavorare perché lo desiderassi, ma per imposizione.
Un’imposizione che in questo caso proveniva dai miei genitori, soprattutto mio padre che dà importanza alla vita in relazione al lavoro che si fa o meno, ma in senso generale da come ci viene servito il sistema attuale, che da una certa età in poi prevede che si debba essere schiavi di orari e abitudini per poter far parte della società, propinandoci una realtà e una soltanto.
All’epoca non lo sapevo, ma quello che stavo vivendo non era esclusivamente un capriccio dovuto magari dall’età o dettato dalla malattia, bensì i primi barlumi di rifiuto verso un sistema nel quale non mi sarei mai riuscito a rispecchiare, e che ad un certo punto della mia vita avrei iniziato a combattere.
Il lavoro in focacceria durò circa un mese, poi mi arresi. Non fu il fisico a cedere, ma la testa, avevo bisogno di cullarmi in quegli schemi e abitudini che da un lato mi rassicuravamo, ma dall’altro rappresentavano la mia prigione privata.
Iniziai a parlarne con la dottoressa che mi aveva in cura e ad ammettere, forse per la prima volta, di soffrire di un disturbo alimentare, così lei mi fissò un appuntamento presso il centro specializzato di un ospedale.
All’inizio non feci altro che rispiegare tutto da capo: l’infanzia, l’adolescenza, ogni episodio che mi aveva messo in difficoltà e così via.
Andavo in questo centro una volta al mese, mi pesavano, ascoltavano quello che avevo da dire e ogni volta mi proponevano di inserire qualcosa di nuovo nella mia alimentazione, mentre ogni sei mesi circa dovevo sottopormi ad una serie di esami per verificare che i valori del sangue e i vari organi non soffrissero particolarmente.
Ricordo ancora la mia soddisfazione quando, dopo un controllo, mi trovarono un’irregolarità cardiaca, in pratica una parte del cuore batteva per conto suo.
Ero soddisfatto perché il mio lato autolesionista attendeva proprio un risultato del genere.
Andai in questo posto per sette anni, ma mai con la reale intenzione di guarire o di fare progressi, solo per tenere tranquilla mia mamma, ciò che ricercavo era la completa autodistruzione.
Sapere che una parte del mio corpo era danneggiata mi faceva sentire importante, degno di attenzioni, e mi dava quella speranza che la mia vita forse non sarebbe durata a lungo.
All’epoca non avevo la coscienza per realizzare che ciò che mi stavo facendo avrebbe condizionato per sempre tutta la mia vita, portandomi un giorno a non poter più avere il controllo del mio corpo, perso in un perenne conflitto tra i desideri dettati dallo spirito e l’impossibilità fisica di realizzarli.

Consiglio musicale: Serve the servants

Dedicato a chi si crede solo/a

Continua…