Notizie dal fronte – 10: la promessa

Nei primi anni del 2000 due avvenimenti si fecero largo nella mia vita e ne avrebbero per sempre segnato la direzione: una promessa e una passione che stava nascendo in me.
Il primo risale a molti anni prima, circa una decina, avevo quattordici anni e nonostante non avessi alcun tipo di interesse particolare neanche a livello musicale, nel 1994 un fatto mi scosse nel profondo: il suicidio di Kurt Cobain.
Non avevo mai ascoltato i Nirvana in maniera seria o approfondita, almeno fino ad allora, giusto qualche canzone ogni tanto e anche distrattamente, ma sapevo chi era lui e la sua morte, in quel modo, mi travolse.
Non riuscivo a darmi pace, non capivo perché un ragazzo di ventisette anni, sposato, con una figlia e leader della band che segno la vita di un’intera generazione sconvolgendo la scena musicale di quell’epoca, potesse giungere ad un livello di disperazione tale da togliersi la vita.
Lo so, anche io penso che non si sia suicidato, ma a quei tempi era la notizia e la versione più diffusa.
Di recente sono andato a vedere l’ultimo documentario uscito sulla sua vita, quello girato col benestare della figlia e della moglie: un insulto alla sua memoria.
Il messaggio principale che scaturisce da questo documentario è che lui era un tossico perché aveva problemi mentali e quindi poi si è ucciso, consegnando così alle generazioni che hanno abbracciato i Nirvana dopo la morte di Kurdt (come lui amava firmarsi) un immagine distorta di ciò che lui era.
Come capita per diverse questioni, vi consiglio di leggere i libri scritti sulla sua vita e di non basarvi solo sui documentari, “Più pesante del cielo” è probabilmente quello più completo.
Detto questo. La sua morte mi sconvolse, a quei tempi non potevo capire quale pressione potesse sentire sulle sue spalle una persona che è sempre al centro dell’attenzione, e quanto questo lo opprimesse invece di renderlo felice e fiero.
Iniziai a documentarmi sulla sua vita, a leggere, guardare ed ascoltare ogni cosa che riguardasse Kurdt e i Nirvana, che restano uno dei miei gruppi preferiti, ma in un modo molto particolare, come se li sentissi anche quando non gli ascolto, una sorta di filo conduttore che mi collega a tutti gli altri.
Più cose apprendevo sulla sua vita, più mi trovavo in sintonia con lui e notavo diverse similitudini tra di noi, non artistiche ovviamente (non voglio essere blasfemo), ma a livello caratteriale, umorale, per come affrontava le vicissitudini della vita e il modo in cui si relazionava con le pressioni e le responsabilità che sopraggiunsero con la fama.
Io non sono una persona famosa, non punto ad esserlo, anzi, spesso preferirei essere dimenticato.
Però dai trenta anni in poi ho iniziato ad occuparmi di alcune cose, di cui vi parlerò in seguito, che mi hanno portato a dovermi caricare di molte responsabilità e trovarmi spesso, se non sempre, al centro della situazione al seguito di alcune mi caratteristiche.

In trentasei anni non ricordo un periodo della mia vita in cui posso dire di essere stato bene, sia fisicamente che mentalmente, ma passati i trenta il mio fisico ha iniziato gradualmente ad abbandonarmi, aggravando ulteriormente le mie problematiche di stomaco già precarie.
Stare bene, troppo spesso è una condizione che viene data per scontata, “se si ha la salute si ha tutto” spesso si sente dire, ma la salute è determinata da tante cose e il mio limite più grande è sempre stato quello di non rendermi conto in tempo di quei rari momenti di pace che ho incontrato.
Per me “stare bene” non è solo una questione di salute fisica, quella non mi appartiene ormai da tempo o mai mi è appartenuta, ma una condizione di pace interiore che solo l’abbraccio con la persona giusta può consegnare. Una sensazione che ha il potere in un istante di ricucire ferite aperte da decenni, di ricostruire là dove ormai c’era solo desolazione.

Nel 1994 la mia malattia muoveva timidamente i primi passi e in quei momenti, quando non capisci cosa stia accadendo, non ti spieghi perché stati così male e perché sei costretto ad affrontare tutto da solo, può capitare di cercare le risposte paragonando la propria vita a quella di altri, nella disperata ricerca di dare un senso al tutto.
Io mi rivedevo e, per certi versi, mi ritrovo ancora adesso in quella che fu la vita di Kurdt, nella sua situazione famigliare ad esempio situazione famigliare. Non ho mai ritenuto di avere una famiglia nel senso stretto della parola, ero forse l’unico bambino sulla faccia della terra a desiderare fortemente che i genitori divorziassero.
Sento di esser stato cresciuto dai miei nonni materni durante l’infanzia e buona parte dell’adolescenza, mi mamma poi mi è stata vicino per tutto il decorso della malattia e oltre.
Con mio padre erano più le botte che ci davamo che altro, e mio fratello ha sempre subito questa condizione “familiare”, perennemente diviso tra le varie posizioni senza riuscire mai a comprendere bene perché certe cose accadessero.
Ma si sa che il secondo genito vive degli agi derivati dagli errori già commessi dai genitori nell’allevare il primo figlio, e di conseguenza gode di maggiori libertà, però, nel caso di mio fratello, a causa mia fu costretto ad assistere a brutte situazioni anche quando era ancora piccolo.
Oltre alla passione per la storia di Kurdt e le varie affinità, nei mesi successivi alla sua morte mi investì un pensiero che in breve tempo divenne una promessa e poi un’ossessione.
Kurt aveva tutto quello che desideravo io a quell’età e nonostante ciò si uccise, allora decisi che se a ventisette anni fossi stato nella stessa situazione di solitudine e disperazione in cui mi trovavo a quattordici anni, anche io mi sarei tolto la vita.
Per un po’ di tempo dimenticai questa promessa, ma nei primi anni del 2000 tornò a galla, sbalzata a riva da quella mare di solitudine e desolazione che mi stava travolgendo.

Consiglio musicale: Best of You

Dedicato a chi si crede solo/a

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Dopo il brutto viene il bello

Su di te potrebbero essere girati quei film che vanno molto in questi ultimi anni, concatenati tra di loro, con il finale di uno che introduce l’inizio di quello che verrà, perché una semplice trilogia non è sufficiente a raccontare la tua vita e, sopratutto, la persona che eri.
Ma so che a te non piacerebbero, ti stuferesti, preferivi le cose rapide a meno che non si trattasse di stare seduti a tavola a mangiare, però sono certo che un film di tre ore non l’hai mai visto.
Quindi ti prometto che sarò breve, anche perché le cose che contano c’è le siamo già dette nel corso di tutti gli anni passati insieme e sono stati molti, mai troppi, ma tanti, anche se non è la quantità di tempo trascorso insieme che ti rende importante, ma ciò che rappresenti per me, ed uso il presente perché continuerai ad esserlo.
Un mentore, il mio mentore, mi hai insegnato tutto ciò che so della vita, di come bisognerebbe provare a vivere, affrontare e reagire anche a quegli istanti da cui sembra che non ci si possa più riprendere.
Hai sempre detto che nella vita per cavarsela bisogna essere un po’ “abagascisti” e tu ne eri l’essenza.
Ricordo ancora quando ti dissero che avresti vissuto tranquillamente sino ad 80 anni, e di tutta risposta c’è ne hai regalati quasi 13 in più.
In questi casi si tende a recriminare, facendosi assorbire da pensieri tormentosi come quello del tempo: se ne sarebbe potuto passare di più assieme magari.
Ma questo rimpianto non mi tocca perché so di aver condiviso con te ogni istante possibile, bello e brutto che fosse: esultando insieme allo stadio, vegliando su di te in ospedale, trascorrendo quelle eterne estati con te e nonna, ascoltandoti mentre mi insegnavi la stagionalità di frutta e verdura…e sarò con te anche quel giorno, con in dosso la tua giacca di “Francis”, come dicevamo quando ero piccolo.
Mi hai insegnato cosa significhi resistere, non solo per esser stato un partigiano, ma per tutte le volte in cui ti saresti potuto arrendere, e ne avresti avuto tutte le ragioni, ma invece ti sei rialzato più forte di prima, pronto a tornare in campo per dare dei calci al pallone con i tuoi nipoti o raccogliere frutti nei boschi.
Ma in realtà non ti sei arreso neanche questa volta, devi solo aver capito che eravamo pronti ad accettare che ti prendessi un po’ di meritato riposo, intanto persone come te non se ne vanno mai veramente.
I nonni, già solo per il fatto di esserlo, sono un po’ dei supereroi, ma tu sei una di quelle persone che nascono una volta ogni cento anni se non di più.
Hai sempre detto che “dopo il brutto viene il bello”, perché ora te ne sei andato, ma persone come te continuano a vivere in chi resta ed ha avuto la fortuna di condividere un pezzo di cammino.
Dicevi sempre che “un bel gioco dura poco”, ma in questo caso ti sbagliavi, perché la vita insieme a te è stata spettacolare ed è durata anche a lungo.
Ciao Giumin, ciao nonno.

21/02/1924 – 28/12/2016

Notizie dal fronte – 9: autodistruzione a tempo

Nell’autunno del 2003, dopo circa otto mesi di terapia, provai addirittura ad andare a lavorare.
Trovai un posto in una focacceria, ma non fu un caso, ero alla ricerca di qualcosa che mi desse la possibilità di mantenere gli orari in cui mi recavo in palestra, o che almeno non li modificasse troppo.
Dovevo svegliarmi alle cinque del mattino, presentarmi al lavoro alle sei e mezza e restarci fino alle undici circa così, quando il fisico reggeva, una volta lasciata la focacceria potevo recarmi direttamente in palestra, ma spesso finivo per andarci nel pomeriggio a causa della stanchezza.
Il mio aspetto iniziava a svelare le mie reali condizioni fisiche: ero scavato, esile, gli occhi perennemente segnati e il lavoro prevedeva di stare per cinque ore accanto a quattro forni che emanavano temperature molto elevate.
La vera fatica però non era rappresentata dallo sforzo fisico, ma dalla difficoltà di alzarmi dal letto al mattino, trovare il coraggio per uscire di casa ogni giorno era una tortura, anche perché non andavo a lavorare perché lo desiderassi, ma per imposizione.
Un’imposizione che in questo caso proveniva dai miei genitori, soprattutto mio padre che dà importanza alla vita in relazione al lavoro che si fa o meno, ma in senso generale da come ci viene servito il sistema attuale, che da una certa età in poi prevede che si debba essere schiavi di orari e abitudini per poter far parte della società, propinandoci una realtà e una soltanto.
All’epoca non lo sapevo, ma quello che stavo vivendo non era esclusivamente un capriccio dovuto magari dall’età o dettato dalla malattia, bensì i primi barlumi di rifiuto verso un sistema nel quale non mi sarei mai riuscito a rispecchiare, e che ad un certo punto della mia vita avrei iniziato a combattere.
Il lavoro in focacceria durò circa un mese, poi mi arresi. Non fu il fisico a cedere, ma la testa, avevo bisogno di cullarmi in quegli schemi e abitudini che da un lato mi rassicuravamo, ma dall’altro rappresentavano la mia prigione privata.
Iniziai a parlarne con la dottoressa che mi aveva in cura e ad ammettere, forse per la prima volta, di soffrire di un disturbo alimentare, così lei mi fissò un appuntamento presso il centro specializzato di un ospedale.
All’inizio non feci altro che rispiegare tutto da capo: l’infanzia, l’adolescenza, ogni episodio che mi aveva messo in difficoltà e così via.
Andavo in questo centro una volta al mese, mi pesavano, ascoltavano quello che avevo da dire e ogni volta mi proponevano di inserire qualcosa di nuovo nella mia alimentazione, mentre ogni sei mesi circa dovevo sottopormi ad una serie di esami per verificare che i valori del sangue e i vari organi non soffrissero particolarmente.
Ricordo ancora la mia soddisfazione quando, dopo un controllo, mi trovarono un’irregolarità cardiaca, in pratica una parte del cuore batteva per conto suo.
Ero soddisfatto perché il mio lato autolesionista attendeva proprio un risultato del genere.
Andai in questo posto per sette anni, ma mai con la reale intenzione di guarire o di fare progressi, solo per tenere tranquilla mia mamma, ciò che ricercavo era la completa autodistruzione.
Sapere che una parte del mio corpo era danneggiata mi faceva sentire importante, degno di attenzioni, e mi dava quella speranza che la mia vita forse non sarebbe durata a lungo.
All’epoca non avevo la coscienza per realizzare che ciò che mi stavo facendo avrebbe condizionato per sempre tutta la mia vita, portandomi un giorno a non poter più avere il controllo del mio corpo, perso in un perenne conflitto tra i desideri dettati dallo spirito e l’impossibilità fisica di realizzarli.

Consiglio musicale: Serve the servants

Dedicato a chi si crede solo/a

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Notizie dal fronte – 8: desolazione

A ventidue anni, mi sembra, accettai di ad andare da una psicologa, non perché ci credessi o perché fossi realmente intenzionato a guarire, ma solo per far stare più tranquilla mia mamma ed evitare discussioni, in fondo si trattava solo di un’ora alla settimana e per quanto non sia stato semplice, riuscii ad inserirla nello schema della giornata.
All’epoca una fresca delusione amorosa mi aveva convinto che i miei problemi fossero esclusivamente legati a quell’aspetto dell’avita, ho sempre avuto grande difficoltà a capire quando fossi innamorato realmente della persona e quando invece della situazione in sé, di questo ideale chiamato amore.
Ho sempre dovuto rincorrere ogni cosa nella vita, adesso le prime cotte si hanno quasi in tenera età, ma io fino ai diciotto/vent’anni non potevo permettermi di lasciarmi andare, rappresentava un rischio troppo grande e una delusione quasi scontata. Ero soffocato dai canoni dettati dalla società i quali dicevano che un ragazzo grassottello non poteva desiderare alla pari degli altri, anche se ormai non l’ho ero più, ma le immagini che si portano nella testa fanno fatica a scomparire.
Il problema è che per molti anni ho passato il tempo a idealizzare l’amore, attribuendogli più significato di quanto già non ne avesse. Per me questo sentimento ha sempre rappresentato il tutto, il traguardo della vita e non avevo neanche le idee chiare, perché ero radicato ancora a quell’idea che la prima ragazza di cui ci si innamora potesse essere quella definitiva.
Senza dubbio in quel momento la delusione amorosa di cui parlavo nel corso delle sedute mi pareva quanto di peggio potesse accadermi, il tutto enfatizzato e ingigantito dal mio modo di idealizzare l’amore, portandomi a credere che non avrei mai più avuto un’occasione.
Questo argomento rubò molto tempo e distolse l’attenzione dal nocciolo della questione, che in realtà non è chiaro neanche ora, ma sicuramente non era quello il problema principale considerando che la mia malattia aveva visto la sua alba ben prima di incontrare questa ragazza.
Aveva però rafforzato la mia idea di non poter essere accettato per quello che sono, e se da un lato preferivo la solitudine, dall’altro pretendevo che senza far nulla le cose potessero cambiare e che un giorno, magicamente, un’ipotetica lei si potesse bussare alla porta di casa presentandosi come la donna della mia vita.
Avete presente l’ambientazione dei film Io Sono Leggenda, The Day Afther Tomorrow o, meglio ancora, quella de Il Corvo? Ecco, è come mi sentivo io, una città desolata, decadente, in rovina, ormai perduta e abbandonata da tutti.
Come può qualcuno aver voglia di vivere in una città dove non c’è più nulla, tra le macerie, dove regna solo desolazione, distruzione e disperazione?
Quello ero io, era l’impressione che davo, era quello che trasmettevo agli altri, e quindi per quale ragione una persona avrebbe potuto desiderare di starmi vicino?
Mi rimaneva solo mia mamma, un pensiero rassicurante quanto terrificante, perché rendeva perfettamente l’idea della mia condizione di non vita, di come mi stessi chiudendo in me stesso, non perché la cosa mi facesse piacere, ma perché non avevo alcuna alternativa e in qualche modo dovevo difendermi.

Consiglio musicale: Slow Chemical

Dedicato a chi si crede solo/a

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Puntate precedenti:
Notizie dal fronte – 1: guardando nel buio
Notizie dal fronte – 2: l’inizio del tunnel
Notizie dal fronte – 3: stereotipi
Notizie dal fronte – 4: restrizioni
Notizie dal fronte – 5: schemi
Notizie dal fronte – 6: il lento suicidio
Notizie dal fronte – 7: il tempo della bilancia

Notizie dal fronte – 7: il tempo della bilancia

Fu questione di poco, non me ne resi neanche conto, continuavo a fare solo le cose che erano funzionali a tenere sotto controllo il mio peso, quindi andavo in palestra regolarmente, all’inizio tutti i giorni della settimana, e mi pesavo anche quattro volte al giorno.
Quella della bilancia rimase l’ossessione più forte per diverso tempo, almeno per quella che è stata la mia esperienza. Si trattava di un gioco al massacro perché fino a quando il peso che vedevo scritto rimaneva uguale provavo un senso di tranquillità e stabilità, ma se aumentava era il panico.
Il vero dramma, però, si presentava quando il peso diminuiva, perché prendevo l’accaduto come una vittoria e una sfida, mi dicevo: “ok, spettacolo, questo d’ora in poi dovrà essere il mio nuovo peso”, dimenticandomi totalmente che quando ero due etti di più mi sentivo ugualmente tranquillo.
Quando si entra in questo circuito la vita diventa un lancio nel vuoto senza paracadute verso il valore numerico più basso che il fisico riesce a sostenere. Nel momento più buio della mia vita arrivai a pesare 49 chili, avevo circa venticinque anni mi sembra.
Così, molto presto, la siesta dopo il pranzo diventò un momento durante il quale tentavo di sfuggire da me stesso, anche attraverso l’autolesionismo.
I tempi in cui mi strafogavo di merendine erano ormai lontani, vedevo il cibo con terrore e un costante desiderio di restrizione, in quel momento l’esagerazione in eccesso era rappresentata dall’alcol, si cui abusavo quel tanto che bastava per stordirmi e bypassare mezzo pomeriggio dormendo.
Però non mi limitavo a questo, per molti anni ho fatto abuso di farmaci anche quando non ne avevo bisogno, prendevo intere buste di Aulin, o farmaci simili, e ci bevevo dietro un goccio di rum, vodka, quello che trovavo in casa.
Mi stordivo così che potessi evadere da me stesso per qualche ora, ma non troppo, perché entro le quattro del pomeriggio, non un minuto più tardi dovevo uscire per fare un giro in centro città, magari un po’ di spesa al mercato ortofrutticolo e rientrare a casa entro e non oltre le diciotto perché entro le diciannove avrei dovuto cenare.
Quei cocktail di alcolici e farmaci probabilmente sono alla base dei problemi di salute di cui soffro ora, in quegli anni abusai del mio fisico in ogni modo possibile, danneggiando gravemente tutto l’apparato gastro-intestinale.
Ma all’epoca non mi interessava, quello che mi facevo ogni giorno non mi portava problemi, e considerando la mia vita finita e la certezza che non avrei avuto un futuro, le possibili conseguenze delle mie azioni non mi interessavano.
In quegli anni passavo le mie giornate sul divano, a farmi del mare, attendendo che venisse sera per poter tornare a dormire e non dover pensare a nulla.
Adesso che a guidarmi è una grande forza di volontà e avrei molti desideri, il fisico mi ha abbandonato, stremato da quegli anni in cui consideravo la mia vita finita ancor prima di essere incominciata, e come quando avevo venticinque anni passo le mie giornate su un divano, incapace di recuperare ciò che la vita mi ha portato via, ciò che mi sono fatto portare via.
Ma negli anni degli abusi, quando aprivo gli occhi al mattino venivo investito sempre dal solito pensiero: “cazzo, un altro giorno”. Non avevo alcuna voglia di alzarmi dal letto, perché l’avrei dovuto fare, cosa c’era nella mia vita che mi facesse provare il desiderio di vivere un’altra giornata?
Mi alzavo perché dovevo andare in palestra e ripetere le stesse identiche dinamiche che avevano contraddistinto la giornata passata, ma il vuoto che mi portavo dentro si stava tramutando in un macigno che non ero in grado di sostenere sulle mie spalle.
L’anoressia, la malattia era solo una facciata che ricopriva qualcosa di più grosso che scatenava e alimentava il disturbo alimentare stesso, solo che era più semplice essere malati piuttosto che affrontare i propri mostri che mi stavano divorando dall’interno. La pensai così per diverso tempo.

Consiglio musicale: I was wrong

Dedicato a chi si crede solo/a

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Notizie dal fronte – 6: il lento suicidio

Notizie dal fronte – 6: il lento suicidio

Il mio fisico stava cambiando ogni mese che passava, e nella mia mente iniziò a svilupparti un meccanismo di restrizione, mi ripetevo spesso: “se mangiando come mangio ora sto così in forma fisicamente, chissà come starei ancora meglio se rinunciassi a determinate cose”.
Il problema è che non si trattava di eliminare ipotetico cibo spazzatura per sostituirlo con qualcosa di più salutare, ma di diminuire le dosi, la variabilità dei cibi, e i pasti giornalieri stessi.
Tutto questo si andava ad abbinare, o forse era alimentato, da una solitudine crescente, una mente poco impegnata, diversi problemi in casa e il fatto che avessi anche iniziato ad andare in palestra.
Da lì a poco mi ritrovai a ripetermi: “beh, finché riuscirò a fare tutto quello che faccio (alzarmi, andare in palestra, un giretto pomeridiano magari per fare la spesa, e poco altro) con qualche foglia di lattuga nel corpo, andrò avanti così”.
Stavo entrando in un tunnel che mi avrebbe annientato, è una cosa che ti porta via tutto: libertà decisionale, voglia di fare, di relazionarsi col prossimo, ogni energia e forza.
Il problema è che questi due ultimi aspetti non sopraggiungono subito, l’organismo umano è una macchina perfetta, molto intelligente ed è attrezzata per la sopravvivenza, gli occorre molto tempo per andare in riserva, ma se per rompersi impiega cinque anni, gli occorrerà il triplo del tempo per riprendersi dagli abusi subiti, sempre che riesca a riprendersi.
All’inizio il controllo totale che si ha sul proprio corpo consegna una carica psicologica talmente forte che si riescono a sostenere sforzi fisici notevoli anche con poco o niente in corpo.
Quando ti ammali di anoressia, definita “lento suicidio”, questa all’inizio è come se ti tentasse, fa in modo di convincerti d’essere il solo modo giusto di vivere tendendoti tranelli come quello della forza di volontà e un morboso controllo psicologico sul proprio fisico che ti consegna direttamente tra le braccia della malattia.
Da quel momento smetti di esistere, l’esempio forse più calzante che posso fare è quello delle vecchie marionette: non sono loro a muoversi, si muovono al comando di un tizio che regge dei fili.
Ogni giorno che passava smettevo sempre più di vivere e lasciavo che gli schemi guidassero le mie abitudini che stavano diventando un’ossessione. Schemi che però non vivevo con senso d’oppressione, anzi, rappresentavano una culla, una struttura protettiva che mi esentava da ogni responsabilità decisionale: la dipendenza aveva creato la sua struttura portante.
Per circa sette anni la mia giornata tipo è stata la seguente: sveglia alle sei del mattino per avere il tempo di vegetare un paio d’ore sul divano prima di uscire; colazione misera, gli anni in cui la facevo si limitava ad un biscotto e un bicchiere di succo di frutta; alle otto in punto (vietato tardare un solo istante) uscivo per recarmi in palestra dove rimanevo dalle nove sino alle 10. Dovevo, e ripeto, dovevo rientrare a casa entro e non oltre le undici, per quale ragione? Perché la mia testa mi diceva così. Tra le undici e mezzogiorno dovevo essere in grado di prepararmi il pranzo e anche la cena, perché così non dovevo pensarci nel pomeriggio, e alle dodici in punto sedermi a tavola.
A livello alimentare, tra i ventuno e i ventisei anni fu il periodo migliore, nel senso che almeno facevo tre pasti al giorno, seppur miseri.
Non riesco a ricordare di preciso che cosa mangiassi, mi dovete scusare, ma non ha neanche molta importanza. Però ricordo che stavo sviluppando un interesse e desiderio crescente nei confronti della verdura, del minestrone surgelato soprattutto, rapido da preparare e che quindi poteva adattarsi perfettamente agli schemi mentali che mi avevano assorbito.
Dopo pranzo, ogni giorno per almeno cinque anni, si ripeteva lo stesso rituale: dopo esser stato in bagno anche contro un reale bisogno fisiologico nel tentativo di evacuare quel poco che avevo mangiato, mi buttavo sul divano a vedere la televisione fino verso le tre del pomeriggio.
Ma parallelamente al disturbo alimentare, in quegli anni si sviluppò un’altra dipendenza, quella dall’alcol, o comunque da un qualcosa che potesse stordirmi e farmi dormire per buona parte del pomeriggio.
L’inconsapevolezza dell’età, o il totale disinteresse per le conseguenze, un meccanismo alimentato dalla convinzione o speranza che, intanto, la mia vita sarebbe durata poco, mi ha portato in quegli anni a violentare il mio fisico, senza sapere cosa stessi facendo.
Dopo il misero pranzo, spesso eliminato attraverso sedute strategiche in bagno, mi calavo una bustina di antidolorifico accompagnata da un bicchiere del super alcolico che reperivo in casa, un cocktail che mi permetteva di bai-passare buona parte del pomeriggio per giungere il prima possibile alla fine della giornata.
Il problema è che la giornata prima o poi ricominciava sempre, ed era la fotocopia di quella appena passata.
Questo schema mi bastò per molti anni, mi dava un senso di sicurezza e protezione che però, ben presto, si tramutò in disperazione, una crescente solitudine e una profonda depressione.
Mi convinsi che la mia vita non mi avrebbe mai potuto regalare nulla di bello, che era già finita ancor prima di cominciare. In quei giorni eterni, tra il 2002 e il 2004, gradualmente, ma molto rapidamente, smisi di aver voglia di vivere.

Consiglio musicale: La guerra è finita

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Notizie dal fronte – 5: schemi

Notizie dal fronte – 5: schemi

Le amicizie per me sono sempre state croce e delizia, una corsa a metà strada tra la fatica di trovarne di sincere e l’incapacità di mantenerle a causa dei miei problemi o perché non rispecchiavo le aspettative di chi accettava di passare del tempo con me.
Con questo non voglio dire di essere esente da colpe, quando si soffre di mali oscuri, poco visibili all’occhio umano, ma che determinano il proprio essere, spesso si finisce per allontanare le persone senza neanche rendersene conto.
Negli anni mi sono reso conto di come mi senta maggiormente a mio agio nell’avere amicizie femminili, aspetto questo che persiste tuttora, forse per la quasi totale assenza della figura paterna, ed un legame maggiormente spiccato con mia mamma.
Mio fratello ha amicizie che si trascina fin dalle scuole elementari, io no, per sfortuna, per incostanza, perché mi stufavo facilmente delle modalità con le quali si passava il tempo.
Da un lato mi lamentavo molto della solitudine, non capivo perché dovesse essere quello il mio destino, ma da l’altro volevo stare da solo, quasi spaventato dall’impegno che avrebbe comportato un rapporto umano di qualche tipo.
Ma definire qualcuno amico o amica a vent’anni, ma anche a trentacinque, è un azzardo. Questa è un titolo che viene spesso usato con troppa leggerezza, sono pochi i fortunati che possono dire di aver trovato il proprio migliore amico o la migliore amica nel corso dell’adolescenza, e poi si tratta davvero di una fortuna?
Dopo tanti anni alla ricerca di persone vere, posso affermare con certezza che non esiste cosa più giusta del detto: “gli amici veri si contano sulle dita di una mano”, e aggiungo che è sempre bene lasciare libero il dito medio per ogni eventualità.
Io in trentacinque anni una mano non l’ho ancora riempita, non ho ancora capito se questa cosa sia positiva o negativa, se esserne felice oppure no, ma penso di aver imparato sulla mia pelle che avere tutto e subito rende la vita insipida e fa precipitare nella noia.
Però non sarebbe male ogni tanto una via di mezzo, perché spesso capita di incappare in eterni momenti di nulla, quando la sola cosa che ti resta è una stanza assordante da quanto è silenziosa, ritrovandoti a parlare con te stesso ad alta voce senza neanche rendertene conto pur di spezzare quella atmosfera.
Negli anni ho incontrato delle persone alle quali sono ancora molto legato, che ho perso di vista a causa del corso degli eventi, ma ciò non significa che non pensi più a loro e che non abbiano avuto un ruolo importante nella mia vita, e se un giorno gli dovesse capitare di leggere questo scritto mi auguro che si riconoscano tra queste parole.
Al termine degli studi però non contavo alcun amico, anche se gli ultimi due anni dell’alberghiero potevano considerarsi accettabili, questi non mi avevano riservato né amicizie, né altro.
Mi presi un anno sabbatico, come usa dire quando non si ha la minima idea di cosa si vorrebbe fare nella vita, e molti potrebbero anche sostenere che stia continuando da 15 anni, ma dipende dai punti di vista.
L’università era esclusa, e i cinque anni di istituto alberghiero mi avevano estirpato ogni passione verso la cucina. Cinque anni trascorsi a fare sempre le stesse cose, e gli ultimi due passati senza mai avere la possibilità di cucinare.
L’anno sabbatico fu un trampolino di lancio eccezionale per la mia malattia, per la prima volta nella mia vita non avevo impegni fissi, quindi avevo molto tempo per pensare e la favoletta di trovare un lavoro si rivelò presto essere, appunto, una favola.
Spiegare a parole quello che mi stava accadendo non è semplice, anche perché sul momento non me ne rendevo conto neanche io.
La costante solitudine, l’assenza di ogni tipo di impegno, il vuoto interiore che mi accompagnava togliendomi il respiro mi portarono a costruire tutta una serie di schemi per riuscire ad affrontare le giornate, schemi che molto presto sarebbero divenuti una prigione.

Consiglio musicale: Il mio dito medio 

Dedicato a chi si crede solo/a

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Notizie dal fronte – 3: stereotipi
Notizie dal fronte – 4: restrizioni

 

 

Notizie dal fronte – 4: restrizioni

Mio padre ha sempre rifiutato l’idea che io potessi avere un problema, per lui sono sempre stato bene, era quello che ripeteva a se stesso, era quello che raccontava ai parenti quando chiedevano di me, anche quando era visibilmente evidente che cera qualcosa che non andava.
Accettata o no, la mia malattia vide la sua alba nella primavera del 95 senza che io me ne rendessi conto, e da lì a poco avrebbe iniziato a divorarmi.
Nei primi mesi di quell’anno mi ammalai più volte, nulla di grave, quelle botte di influenza tipiche dell’età contraddistinta dalla spavalderia e dalla scarsa cura di se stessi.
I miei febbroni però mi riducevano sempre uno straccio, avevo zero appetito, sudavo molto e stavo male anche per diversi giorni.
Questi episodi mischiati al fatto di trovarmi in piena età dello sviluppo mi portarono, involontariamente, a perdere peso. Fu in quel momento che iniziò tutto.
Quello che vedevo ora allo specchio era diverso e mi piaceva di più, non tanto per una questione di bellezza quanto di accettazione, capivo di stare meglio e in breve tempo sviluppai un pensiero malsano che puntava alla continua restrizione.
In testa mi rimbombava un solo quesito: “se levando le merendine sto così bene, figuriamoci come potrei diventare se eliminassi anche…”. Un pensiero che in breve tempo avrei applicato ad ogni singolo alimento sino a sviluppare un rapporto a due con la foglia di lattuga, ovviamente scondita.
Ma per giungere a quel rapporto simbiotico con la lattuga impiegai comunque ancora qualche anno, in verità nel corso delle scuole superiori il trend rimase circa lo stesso, anzi, gli ultimi due anni di istituto alberghiero riuscii anche ad affermare la mia presenza e a farmi qualche amico.
Con la perdita di peso avevo maturato un po’ più di sicurezza e stima in me stesso, soprattutto perché il mio aspetto era cambiato e con quello stava mutando anche il mio carattere, ma col senno di poi considero il primo dei due fattori una debolezza, perché bisognerebbe riuscire a credere in se stessi a prescindere da l’aspetto fisico.
Però non è semplice quando si vive a l’interno di una società basata sul mito dell’apparenza, quando si viene quotidianamente derisi da tutti, quando nessuna ragazza ne vuole sapere niente di te e tutto quello che ti rimane è una solitudine che ti spinge a perderti dentro te stesso.
Due episodi su tutti, tra il 98 e il 2000, contribuirono a darmi una prima, timida spinta fuori dal mio involucro di auto-ghettizzazione.
Fin da piccoli io e mio fratello (si, ho un fratello minore, ne parlerò più avanti) d’estate siamo sempre stati portati a Rimini, a luglio, e a Limone (Piemonte) in agosto.
Ho sempre preferito la seconda parte dell’estate perché significava stare in campagna, ma soprattutto passare un intero mese in compagnia dei miei nonni materni.
Il periodo a Rimini non mi ha mai entusiasmato particolarmente, il mare non mi piaceva e non mi piace tuttora, i passatempi offerti da questa città non hanno mai fatto per me, e poi, per chi ha un problema come il mio, mettersi in costume da bagno non è proprio la cosa più semplice.
Ma nell’estate del 98 accadde qualcosa di strano, quasi come fossi stufo di starmene rinchiuso nel mio guscio, avvicinai un gruppo di ragazzi che soggiornavano nel mio stesso albergo e, magicamente, quello che doveva essere l’ultimo anno in cui avrei seguito i miei genitori a Rimini, divenne il primo di 5 condivisi con una banda di amicizie sempre più numerosa e che mi regalò diverse emozioni.
Non so spiegarvi a parole cosa mi spinse ad avvicinare quei ragazzi, forza della disperazione forse, la fuga di un frammento di quella personalità che avrei sviluppato molti anni dopo.
Non lo so, ma sta di fatto che da quel momento avrei per sempre identificato i momenti in cui riuscivo a credere in me stesso attraverso un simbolo che potesse trasmettermi un senso di libertà: le ali dell’aquila.
Nella primavera del 2000, invece, mi mamma mi regalò, nel tentativo anche di scrollarmi dalla condizione che mi stava fagocitando, la possibilità di seguirla in uno dei suoi viaggi in Cina, precisamente a Pechino, città che ho avuto la fortuna di visitare tre volte fin’ora.
Il viaggio fu un’esperienza fenomenale, anche se fui testimone del cambiamento, in negativo, di un paese che stava subendo l’implacabile processo della globalizzazione, che divorava i templi antichi a favore della costruzione di McDonald’s, KFC, Burger King e molti altri fast food e catene commerciali.
Il 2000 era anche l’anno del diploma di maturità e il viaggio in Cina ispirò la tesina con la quale riuscii a diplomarmi al primo colpo, contro ogni pronostico, sacrificando ogni cosa, anche quei pochi pseudo amici che ero riuscito a farmi sopratutto grazie ad un’inaspettata vena sportiva.
Il mio sovrappeso mi portava spesso ad avere attacchi d’asma, che da quando inizia a dimagrire si fecero sempre più rari fino a sparire.
Questo mi portò a poter partecipare alle ore di educazione fisica che in quegli anni prevedevano partite di calcio a cinque.
All’improvviso tutti mi volevano, anche altre classi, non esisteva un portiere migliore di me, e prima che possiate fare battute, no, non ero più così grosso da prendere tutta la larghezza della porta.
La mia bravura era sicuramente dovuta agli anni di gioco passati con mio fratello, amante del calcio, che spesso mi trascinava a giocare anche quando non avevo voglia di far nulla.
Ho perso il conto di quante volte Alby (questo il nome di mio fratello) mi abbia raccolto da terra col cucchiaino, facendo da fratello maggiore a suo fratello maggiore. Penso di non essere mai riuscito a ricambiare a dovere.
La tesina che presentai all’esame di maturità, era incentrata sulla cucina regionale e il fenomeno della globalizzazione. Quest’ultima parte illustrava, con un già spiccato senso critico che mi avrebbe contraddistinto nel futuro, i cambiamenti che la Cina stava subendo a causa delle multinazionali e del “libero” mercato.
All’epoca non potevo saperlo, ma quello fu il primo passo verso ciò che sarei diventato, qualcosa che era latente dentro me stesso, ma che non sapevo ancora di possedere.
Mi diplomai, ma non cambiò assolutamente nulla, la solitudine era sempre la mia compagna più fedele, non avevo più amici, persi non mi ricordo neanche per quali ragioni, né tanto meno una fidanzata.
Un desiderio, quest’ultimo, che nutrivo già da diversi anni, dettato da questo mio bisogno quasi ossessivo di amare, che mi portava a ripetermi che massimo a ventiquattro anni mi sarei dovuto sposare, come se questo significasse non sentirmi mai più solo, e potesse rappresentare qualche effettiva garanzia di felicità eterna.

Consiglio musicale: Heart-Shaped Box

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Notizie dal fronte – 1: guardando nel buio
Notizie dal fronte – 2: l’inizio del tunnel
Notizie dal fronte – 3: stereotipi

Notizie dal fronte – 3: stereotipi

La scuola non mi ha insegnato nulla, conosco alcuni stati e alcune capitali, so fare i calcoli e ricordo un po’ di avvenimenti storici, ma la vita e come vivere non sono cose che ti insegnano in quell’ambito, anche se dovrebbe essere la prima preoccupazione degli insegnanti, e prima ancora di quei genitori che spingono a proseguire gli studi.
C’è una canzone, che negli anni avrebbe sempre rappresentato molto per me, che esprime al meglio questo concetto e la volontà di vivere gli eventi invece che farsi vivere da essi.

Black man gotta lot a problems. But they don’t mind throwing a brick. White people go to school Where they teach you how to be thick. (The Clash – White Riot)

In pratica questo estratto della canzone dice, traduco letteralmente, “i neri non temono la lotta e non hanno paura a lanciare un mattone. I bianchi vanno a scuola a farsi insegnare come essere di spessore”,  uno spaccato della vita ne l’Inghilterra degli anni 70, una riflessione sull’agire con la propria testa consci dei problemi che vanno affrontati.
Il contrario di ciò che ti offre la scuola, surrogato del sistema, è esattamente questo, poche informazioni, una visione del mondo e una soltanto che un tempo prevedeva il diploma di maturità come obiettivo massimo, ma ora se non hai una laurea non sei nessuno e quando c’è l’hai ti ritrovi a fare i concorsi per diventare cassiere di McDonald’s, quando ti va bene.
Ma le cose importanti della vita, quelle che ti aiutano ad andare avanti e ad interpretare e affrontare le difficoltà, le ho apprese da mio nonno materno, mentre da mia madre ho imparato ad esprimermi e a relazionarmi col prossimo.
Queste sono le mie basi, cose che non ti insegneranno mai tra i banchi di scuola, da qui ho costruito e continuo a costruire me stesso.
Ma al termine delle scuole medie ero solo un ragazzo insicuro, preda di complessi di inferiorità, che veniva costretto a proseguire gli studi perché ormai non usava più fermarsi in terza media.
Io sarei voluto andare a lavorare, non volevo più saperne della scuola e dei nuovi compagni di classe che avrei trovato sul mio cammino.
I miei genitori ovviamente erano di un altro avviso, così scelsi, quasi per disperazione e sicuramente per esclusione, l’istituto alberghiero, il colmo considerando la malattia che avrei dovuto affrontare da lì a poco, ma ai tempi continuavo a non avere coscienza del problema.
Scelsi l’alberghiero anche perché non ho mai avuto voglia di studiare, quindi un vero e propri liceo era escluso a priori, ma soprattutto perché da qualche anno avevo iniziato a nutrire una qualche passione per la cucina, un interesse che mia nonna materna ha contribuito ad alimentare.
Da piccolo passavo molto tempo con i miei nonni materni che per molti versi mi hanno cresciuto. Da un lato mio nonno, commerciante di frutta e verdura, mi insegnava la stagionalità, a riconoscere quando un frutto fosse maturo e a prevedere i cambiamenti del tempo.
Mentre con mia nonna cucinavo, o meglio, la guardavo cucinare e quando potevo le davo una mano, e la cosa mi affascinava molto.
Sono stati i miei nonni materni, Lucio e Rosa, ad avermi insegnato i valori fondamentali della vita attraverso il modo in cui vivevano e avevano vissuto, anche attraverso i racconti di ciò che avevano passato in tempo di guerra.
Mio nonno è un partigiano, uso il presente perché non si smette mai d’esserlo, e si può dire che da lui abbia proprio imparato a resistere.
La guerra, diverse malattie, non l’hanno mai messo in ginocchio, si è sempre rialzato esprimendo una tenacia ed un impegno che rappresentano l’eredità più grande che mi potesse lasciare, anche se non sempre riesco a rendergli onore, ma se oggi sono ancora qua a scrivere della mia vita è solo grazie a lui
E ora che ricordo, fu proprio per mio nonno che decisi di continuare gli studi, sapevo che gli avrei dato una grossa delusione perché lui, ai suoi tempi, non possedeva i mezzi per studiare e la guerra gli tolse ogni minima opportunità di farlo.
Iniziai l’istituto alberghiero quindi e il primo anno fu un inferno, ma allora non potevo sapere che quello vero si sarebbe presentato da lì a poco, le radici però risalgono a quel periodo, tra il 94 e il 95.
Quando mi abbuffavo di nascosto mentre mia mamma dormiva, subito dopo pranzo senza alcun appetito, ma solo per placare una voragine che mi portavo dentro, mai e poi mai mi aveva sfiorato l’idea di avere un problema, ero goloso mi dicevo, cosa che confermavano anche i miei parenti.
A metà degli anni novanta l’anoressia e i disturbi alimentari in generale erano forse meno diffusi o conosciuti di quanto non lo siano ora o, se non altro, se ne parlava raramente, e quando questo capitava spesso veniva fatto con l’attenzione rivolta sopratutto al sesso femminile.
Pareva quasi che i disturbi alimentari dovessero essere una loro triste esclusiva, una prigione privata, un’etichetta che prima o poi ti agguanta, una condanna dettata dallo status, da come la società tende a stereotipare il corpo femminile.
Spot pubblicitari, televisione, film, modelle e vallette di turno, tutti stereotipi della nostra epoca che trasmettono un’immagine femminile privata di ogni soggettività e ridotta a un corpo che deve rispettare tassativamente determinati parametri e misure per essere accettato.
Questo è il messaggio che arriva agli adolescenti in quegli anni di oblio e che forse arriva tutt’ora, portando spesso a desiderare di immedesimarsi e prendere ispirazione da un personaggio di fantasia, piuttosto che da modelli imposti dalla società, ma questo processo di auto difesa lo spiegherò più avanti.
Il problema è che quando si è attanagliati da un’insicurezza che azzera ciò che sei e si vorrebbe disperatamente assomigliare a qualcun’altro, a quel punto le misure, il peso, l’aspetto e la bilancia diventano le ossessioni più grandi.
Ma questo vale tanto per una ragazza quanto per un ragazzo, anche se a livello sociale questa cosa ancora adesso viene poco accettata.
Ho aperto questo blog perché possa essere di un qualche aiuto o sostegno a chi si ritrova in quanto scrivo, quindi voglio lanciare un appello a chi magari in questo momento si trova in una situazione analoga.
Uscite allo scoperto, non abbiate paura di ammettere l’esistenza di un problema, non sto dicendo che sia semplice, al contrario, ma è il primo passo per risolverlo, e fatelo a testa alta, prima che sia troppo tardi e fieri di questo passo, perché rappresenta il primo di una lunga serie verso la libertà!

Consiglio musicale: White Riot

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Notizie dal fronte – 2: l’inizio del tunnel

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Nel tentativo di aiutarmi, mi mamma iniziò a portarsi ogni tipo di dolce in camera quando dopo pranzo andava a riposare.
Col senno di poi mi rendo conto che tutti i membri della mia famiglia avrebbero potuto anche tentare di aiutarmi in modo un po’ più efficace, magari cessando l’acquisto di almeno alcuni prodotti industriali, ma io ero il primo a non capire cosa stesse succedendo, come potevano farlo loro. Ricordo ancora un giorno in particolare dell’ultima settimana della terza media.
Da lì a pochi giorni avrei preso parte, per la prima volta nella mia vita, ad una partita di calcio per festeggiare la fine del ciclo scolastico.
Ero euforico, fisicamente in difficoltà rispetto a molti altri che avevano dato la propria partecipazione, se non ricordo male ero il più grosso di tutti, ma gettarmi in questa avventura nonostante tutto mi faceva sentire alla pari di tutti gli altri compagni di scuola.
Pochi giorni prima della partita delusi nuovamente mia mamma.
Dopo mesi dimenticò di portare i dolci in camera prima di riposarsi dopo pranzo e io non riuscii a fermarmi.
Probabilmente, anche se avessero smesso di comprarli, avrei comunque trovato qualche altro alimento di cui essere dipendente perché ormai il meccanismo si era attivato, ma è una di quelle cose che non sapremo mai, quello che so è che in quegli anni ho assunto una grande quantità di sostanze chimiche, additivi e surrogati industriali contenuti in quei prodotti, sicuramente dannosi per l’organismo, e chissà che la mia condizione attuale non sia determinata anche da quel tipo di abuso.
Fino ad un certo punto della nostra vita siamo tutti in balia di ciò che i nostri genitori decidono per noi, da cosa mangiare, quando e in quale quantità, è difficile che a sei o dieci anni un bambino scelga di cosa cibarsi e lo faccia in maniera responsabile pensando alle conseguenze delle proprie azioni, come potrebbe.
Se fino ad una certa età è stato abituato ad aprire un pacchetto di merendine per fare colazione, o a pranzare con del formaggio fritto è molto difficile che crescendo voglia cambiare abitudini, perché anche il palato a lungo andare rischia di assuefarsi a determinati sapori, arrivando così a rifiutare o provare disprezzo per della semplice, quanto salutare frutta o verdura: non parlo da esperto medico, ma per esperienza personale.
Pensate che da piccolo, per molto tempo, ho vissuto nella convinzione che esistessero dei pesci in natura ripieni di formaggio a causa dei sofficini Findus, questa era l’educazione alimentare che ricevevo.
Ma non voglio colpevolizzare eccessivamente mia mamma o la mia famiglia in generale, questo è il sistema in cui viviamo, verso il quale si viene veicolati attraverso il bombardamento mediatico giornaliero che ci vuole schiavi di pochi marchi, facendoci credere di avere molti prodotti tra i quali scegliere quando invece si tratta sempre della stessa spazzatura.
Una realtà da cui però si possono prendere le distanze una volta che si capiscono queste cose.
Mi rendo conto che il ruolo del genitore sia sicuramente arduo e denso di insidie, perché come si fa a porre rimedio ai capricci dei figli e delle figlie senza per questo esser detestati almeno sul momento?
D’altronde, però, è compito del genitore fare di tutto affinché i propri figli crescano in salute, e soprattutto non diventino schiavi dei brand, sviluppando un’insana dipendenza da marchi solo per una questione di moda.
Io non sono padre e non so se vorrò mai esserlo, ma adesso, a causa e grazie alla storia personale che mi porto quotidianamente sulle spalle, e per le informazioni raccolte nell’arco degli anni so per certo che non punirei mai un ipotetico mio figlio dandogli prodotti industriali, provenienti dai supermercati e dalla grande distribuzione organizzata, a costo di essere odiato sul momento.
Fino ad un certo punto della nostra vita si viene determinati dalle scelte delle persone che ci circondano: ciò che mangiamo, come ci vestiamo, a che ora dobbiamo fare una cosa piuttosto che un’altra.
Poi, prima o dopo, arriva per tutti il giorno in cui scatta qualcosa, e incominciamo ad autodeterminarci, anche se per molti questo consiste in un vagare tra una moltitudine di eventualità, scopiazzando magari per molto tempo i compagni di classe o gli pseudo amici che si pensano di avere.
Una cosa che ho imparato negli anni è che i veri amici si contano sulle dita di una sola mano, a trentacinque anni ho ancora diverse falangi a disposizione.
Spesso mi capita di menzionare il periodo scolastico, ma non perché ci tenga particolarmente, più che altro per dare una cadenza ai vari avvenimenti.
Per me i quattordici anni passati a scuola (ho ripetuto la prima media) rappresentano, o per meglio dire, non rappresentano nulla, se non esclusivamente brutti ricordi, sofferenza: l’inizio del tunnel.

Consiglio musicale: Born to lose

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