Notizie dal fronte – 10: la promessa

Nei primi anni del 2000 due avvenimenti si fecero largo nella mia vita e ne avrebbero per sempre segnato la direzione: una promessa e una passione che stava nascendo in me.
Il primo risale a molti anni prima, circa una decina, avevo quattordici anni e nonostante non avessi alcun tipo di interesse particolare neanche a livello musicale, nel 1994 un fatto mi scosse nel profondo: il suicidio di Kurt Cobain.
Non avevo mai ascoltato i Nirvana in maniera seria o approfondita, almeno fino ad allora, giusto qualche canzone ogni tanto e anche distrattamente, ma sapevo chi era lui e la sua morte, in quel modo, mi travolse.
Non riuscivo a darmi pace, non capivo perché un ragazzo di ventisette anni, sposato, con una figlia e leader della band che segno la vita di un’intera generazione sconvolgendo la scena musicale di quell’epoca, potesse giungere ad un livello di disperazione tale da togliersi la vita.
Lo so, anche io penso che non si sia suicidato, ma a quei tempi era la notizia e la versione più diffusa.
Di recente sono andato a vedere l’ultimo documentario uscito sulla sua vita, quello girato col benestare della figlia e della moglie: un insulto alla sua memoria.
Il messaggio principale che scaturisce da questo documentario è che lui era un tossico perché aveva problemi mentali e quindi poi si è ucciso, consegnando così alle generazioni che hanno abbracciato i Nirvana dopo la morte di Kurdt (come lui amava firmarsi) un immagine distorta di ciò che lui era.
Come capita per diverse questioni, vi consiglio di leggere i libri scritti sulla sua vita e di non basarvi solo sui documentari, “Più pesante del cielo” è probabilmente quello più completo.
Detto questo. La sua morte mi sconvolse, a quei tempi non potevo capire quale pressione potesse sentire sulle sue spalle una persona che è sempre al centro dell’attenzione, e quanto questo lo opprimesse invece di renderlo felice e fiero.
Iniziai a documentarmi sulla sua vita, a leggere, guardare ed ascoltare ogni cosa che riguardasse Kurdt e i Nirvana, che restano uno dei miei gruppi preferiti, ma in un modo molto particolare, come se li sentissi anche quando non gli ascolto, una sorta di filo conduttore che mi collega a tutti gli altri.
Più cose apprendevo sulla sua vita, più mi trovavo in sintonia con lui e notavo diverse similitudini tra di noi, non artistiche ovviamente (non voglio essere blasfemo), ma a livello caratteriale, umorale, per come affrontava le vicissitudini della vita e il modo in cui si relazionava con le pressioni e le responsabilità che sopraggiunsero con la fama.
Io non sono una persona famosa, non punto ad esserlo, anzi, spesso preferirei essere dimenticato.
Però dai trenta anni in poi ho iniziato ad occuparmi di alcune cose, di cui vi parlerò in seguito, che mi hanno portato a dovermi caricare di molte responsabilità e trovarmi spesso, se non sempre, al centro della situazione al seguito di alcune mi caratteristiche.

In trentasei anni non ricordo un periodo della mia vita in cui posso dire di essere stato bene, sia fisicamente che mentalmente, ma passati i trenta il mio fisico ha iniziato gradualmente ad abbandonarmi, aggravando ulteriormente le mie problematiche di stomaco già precarie.
Stare bene, troppo spesso è una condizione che viene data per scontata, “se si ha la salute si ha tutto” spesso si sente dire, ma la salute è determinata da tante cose e il mio limite più grande è sempre stato quello di non rendermi conto in tempo di quei rari momenti di pace che ho incontrato.
Per me “stare bene” non è solo una questione di salute fisica, quella non mi appartiene ormai da tempo o mai mi è appartenuta, ma una condizione di pace interiore che solo l’abbraccio con la persona giusta può consegnare. Una sensazione che ha il potere in un istante di ricucire ferite aperte da decenni, di ricostruire là dove ormai c’era solo desolazione.

Nel 1994 la mia malattia muoveva timidamente i primi passi e in quei momenti, quando non capisci cosa stia accadendo, non ti spieghi perché stati così male e perché sei costretto ad affrontare tutto da solo, può capitare di cercare le risposte paragonando la propria vita a quella di altri, nella disperata ricerca di dare un senso al tutto.
Io mi rivedevo e, per certi versi, mi ritrovo ancora adesso in quella che fu la vita di Kurdt, nella sua situazione famigliare ad esempio situazione famigliare. Non ho mai ritenuto di avere una famiglia nel senso stretto della parola, ero forse l’unico bambino sulla faccia della terra a desiderare fortemente che i genitori divorziassero.
Sento di esser stato cresciuto dai miei nonni materni durante l’infanzia e buona parte dell’adolescenza, mi mamma poi mi è stata vicino per tutto il decorso della malattia e oltre.
Con mio padre erano più le botte che ci davamo che altro, e mio fratello ha sempre subito questa condizione “familiare”, perennemente diviso tra le varie posizioni senza riuscire mai a comprendere bene perché certe cose accadessero.
Ma si sa che il secondo genito vive degli agi derivati dagli errori già commessi dai genitori nell’allevare il primo figlio, e di conseguenza gode di maggiori libertà, però, nel caso di mio fratello, a causa mia fu costretto ad assistere a brutte situazioni anche quando era ancora piccolo.
Oltre alla passione per la storia di Kurdt e le varie affinità, nei mesi successivi alla sua morte mi investì un pensiero che in breve tempo divenne una promessa e poi un’ossessione.
Kurt aveva tutto quello che desideravo io a quell’età e nonostante ciò si uccise, allora decisi che se a ventisette anni fossi stato nella stessa situazione di solitudine e disperazione in cui mi trovavo a quattordici anni, anche io mi sarei tolto la vita.
Per un po’ di tempo dimenticai questa promessa, ma nei primi anni del 2000 tornò a galla, sbalzata a riva da quella mare di solitudine e desolazione che mi stava travolgendo.

Consiglio musicale: Best of You

Dedicato a chi si crede solo/a

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Dopo il brutto viene il bello

Su di te potrebbero essere girati quei film che vanno molto in questi ultimi anni, concatenati tra di loro, con il finale di uno che introduce l’inizio di quello che verrà, perché una semplice trilogia non è sufficiente a raccontare la tua vita e, sopratutto, la persona che eri.
Ma so che a te non piacerebbero, ti stuferesti, preferivi le cose rapide a meno che non si trattasse di stare seduti a tavola a mangiare, però sono certo che un film di tre ore non l’hai mai visto.
Quindi ti prometto che sarò breve, anche perché le cose che contano c’è le siamo già dette nel corso di tutti gli anni passati insieme e sono stati molti, mai troppi, ma tanti, anche se non è la quantità di tempo trascorso insieme che ti rende importante, ma ciò che rappresenti per me, ed uso il presente perché continuerai ad esserlo.
Un mentore, il mio mentore, mi hai insegnato tutto ciò che so della vita, di come bisognerebbe provare a vivere, affrontare e reagire anche a quegli istanti da cui sembra che non ci si possa più riprendere.
Hai sempre detto che nella vita per cavarsela bisogna essere un po’ “abagascisti” e tu ne eri l’essenza.
Ricordo ancora quando ti dissero che avresti vissuto tranquillamente sino ad 80 anni, e di tutta risposta c’è ne hai regalati quasi 13 in più.
In questi casi si tende a recriminare, facendosi assorbire da pensieri tormentosi come quello del tempo: se ne sarebbe potuto passare di più assieme magari.
Ma questo rimpianto non mi tocca perché so di aver condiviso con te ogni istante possibile, bello e brutto che fosse: esultando insieme allo stadio, vegliando su di te in ospedale, trascorrendo quelle eterne estati con te e nonna, ascoltandoti mentre mi insegnavi la stagionalità di frutta e verdura…e sarò con te anche quel giorno, con in dosso la tua giacca di “Francis”, come dicevamo quando ero piccolo.
Mi hai insegnato cosa significhi resistere, non solo per esser stato un partigiano, ma per tutte le volte in cui ti saresti potuto arrendere, e ne avresti avuto tutte le ragioni, ma invece ti sei rialzato più forte di prima, pronto a tornare in campo per dare dei calci al pallone con i tuoi nipoti o raccogliere frutti nei boschi.
Ma in realtà non ti sei arreso neanche questa volta, devi solo aver capito che eravamo pronti ad accettare che ti prendessi un po’ di meritato riposo, intanto persone come te non se ne vanno mai veramente.
I nonni, già solo per il fatto di esserlo, sono un po’ dei supereroi, ma tu sei una di quelle persone che nascono una volta ogni cento anni se non di più.
Hai sempre detto che “dopo il brutto viene il bello”, perché ora te ne sei andato, ma persone come te continuano a vivere in chi resta ed ha avuto la fortuna di condividere un pezzo di cammino.
Dicevi sempre che “un bel gioco dura poco”, ma in questo caso ti sbagliavi, perché la vita insieme a te è stata spettacolare ed è durata anche a lungo.
Ciao Giumin, ciao nonno.

21/02/1924 – 28/12/2016

Notizie dal fronte – 8: desolazione

A ventidue anni, mi sembra, accettai di ad andare da una psicologa, non perché ci credessi o perché fossi realmente intenzionato a guarire, ma solo per far stare più tranquilla mia mamma ed evitare discussioni, in fondo si trattava solo di un’ora alla settimana e per quanto non sia stato semplice, riuscii ad inserirla nello schema della giornata.
All’epoca una fresca delusione amorosa mi aveva convinto che i miei problemi fossero esclusivamente legati a quell’aspetto dell’avita, ho sempre avuto grande difficoltà a capire quando fossi innamorato realmente della persona e quando invece della situazione in sé, di questo ideale chiamato amore.
Ho sempre dovuto rincorrere ogni cosa nella vita, adesso le prime cotte si hanno quasi in tenera età, ma io fino ai diciotto/vent’anni non potevo permettermi di lasciarmi andare, rappresentava un rischio troppo grande e una delusione quasi scontata. Ero soffocato dai canoni dettati dalla società i quali dicevano che un ragazzo grassottello non poteva desiderare alla pari degli altri, anche se ormai non l’ho ero più, ma le immagini che si portano nella testa fanno fatica a scomparire.
Il problema è che per molti anni ho passato il tempo a idealizzare l’amore, attribuendogli più significato di quanto già non ne avesse. Per me questo sentimento ha sempre rappresentato il tutto, il traguardo della vita e non avevo neanche le idee chiare, perché ero radicato ancora a quell’idea che la prima ragazza di cui ci si innamora potesse essere quella definitiva.
Senza dubbio in quel momento la delusione amorosa di cui parlavo nel corso delle sedute mi pareva quanto di peggio potesse accadermi, il tutto enfatizzato e ingigantito dal mio modo di idealizzare l’amore, portandomi a credere che non avrei mai più avuto un’occasione.
Questo argomento rubò molto tempo e distolse l’attenzione dal nocciolo della questione, che in realtà non è chiaro neanche ora, ma sicuramente non era quello il problema principale considerando che la mia malattia aveva visto la sua alba ben prima di incontrare questa ragazza.
Aveva però rafforzato la mia idea di non poter essere accettato per quello che sono, e se da un lato preferivo la solitudine, dall’altro pretendevo che senza far nulla le cose potessero cambiare e che un giorno, magicamente, un’ipotetica lei si potesse bussare alla porta di casa presentandosi come la donna della mia vita.
Avete presente l’ambientazione dei film Io Sono Leggenda, The Day Afther Tomorrow o, meglio ancora, quella de Il Corvo? Ecco, è come mi sentivo io, una città desolata, decadente, in rovina, ormai perduta e abbandonata da tutti.
Come può qualcuno aver voglia di vivere in una città dove non c’è più nulla, tra le macerie, dove regna solo desolazione, distruzione e disperazione?
Quello ero io, era l’impressione che davo, era quello che trasmettevo agli altri, e quindi per quale ragione una persona avrebbe potuto desiderare di starmi vicino?
Mi rimaneva solo mia mamma, un pensiero rassicurante quanto terrificante, perché rendeva perfettamente l’idea della mia condizione di non vita, di come mi stessi chiudendo in me stesso, non perché la cosa mi facesse piacere, ma perché non avevo alcuna alternativa e in qualche modo dovevo difendermi.

Consiglio musicale: Slow Chemical

Dedicato a chi si crede solo/a

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Notizie dal fronte – 1: guardando nel buio
Notizie dal fronte – 2: l’inizio del tunnel
Notizie dal fronte – 3: stereotipi
Notizie dal fronte – 4: restrizioni
Notizie dal fronte – 5: schemi
Notizie dal fronte – 6: il lento suicidio
Notizie dal fronte – 7: il tempo della bilancia

Notizie dal fronte – 7: il tempo della bilancia

Fu questione di poco, non me ne resi neanche conto, continuavo a fare solo le cose che erano funzionali a tenere sotto controllo il mio peso, quindi andavo in palestra regolarmente, all’inizio tutti i giorni della settimana, e mi pesavo anche quattro volte al giorno.
Quella della bilancia rimase l’ossessione più forte per diverso tempo, almeno per quella che è stata la mia esperienza. Si trattava di un gioco al massacro perché fino a quando il peso che vedevo scritto rimaneva uguale provavo un senso di tranquillità e stabilità, ma se aumentava era il panico.
Il vero dramma, però, si presentava quando il peso diminuiva, perché prendevo l’accaduto come una vittoria e una sfida, mi dicevo: “ok, spettacolo, questo d’ora in poi dovrà essere il mio nuovo peso”, dimenticandomi totalmente che quando ero due etti di più mi sentivo ugualmente tranquillo.
Quando si entra in questo circuito la vita diventa un lancio nel vuoto senza paracadute verso il valore numerico più basso che il fisico riesce a sostenere. Nel momento più buio della mia vita arrivai a pesare 49 chili, avevo circa venticinque anni mi sembra.
Così, molto presto, la siesta dopo il pranzo diventò un momento durante il quale tentavo di sfuggire da me stesso, anche attraverso l’autolesionismo.
I tempi in cui mi strafogavo di merendine erano ormai lontani, vedevo il cibo con terrore e un costante desiderio di restrizione, in quel momento l’esagerazione in eccesso era rappresentata dall’alcol, si cui abusavo quel tanto che bastava per stordirmi e bypassare mezzo pomeriggio dormendo.
Però non mi limitavo a questo, per molti anni ho fatto abuso di farmaci anche quando non ne avevo bisogno, prendevo intere buste di Aulin, o farmaci simili, e ci bevevo dietro un goccio di rum, vodka, quello che trovavo in casa.
Mi stordivo così che potessi evadere da me stesso per qualche ora, ma non troppo, perché entro le quattro del pomeriggio, non un minuto più tardi dovevo uscire per fare un giro in centro città, magari un po’ di spesa al mercato ortofrutticolo e rientrare a casa entro e non oltre le diciotto perché entro le diciannove avrei dovuto cenare.
Quei cocktail di alcolici e farmaci probabilmente sono alla base dei problemi di salute di cui soffro ora, in quegli anni abusai del mio fisico in ogni modo possibile, danneggiando gravemente tutto l’apparato gastro-intestinale.
Ma all’epoca non mi interessava, quello che mi facevo ogni giorno non mi portava problemi, e considerando la mia vita finita e la certezza che non avrei avuto un futuro, le possibili conseguenze delle mie azioni non mi interessavano.
In quegli anni passavo le mie giornate sul divano, a farmi del mare, attendendo che venisse sera per poter tornare a dormire e non dover pensare a nulla.
Adesso che a guidarmi è una grande forza di volontà e avrei molti desideri, il fisico mi ha abbandonato, stremato da quegli anni in cui consideravo la mia vita finita ancor prima di essere incominciata, e come quando avevo venticinque anni passo le mie giornate su un divano, incapace di recuperare ciò che la vita mi ha portato via, ciò che mi sono fatto portare via.
Ma negli anni degli abusi, quando aprivo gli occhi al mattino venivo investito sempre dal solito pensiero: “cazzo, un altro giorno”. Non avevo alcuna voglia di alzarmi dal letto, perché l’avrei dovuto fare, cosa c’era nella mia vita che mi facesse provare il desiderio di vivere un’altra giornata?
Mi alzavo perché dovevo andare in palestra e ripetere le stesse identiche dinamiche che avevano contraddistinto la giornata passata, ma il vuoto che mi portavo dentro si stava tramutando in un macigno che non ero in grado di sostenere sulle mie spalle.
L’anoressia, la malattia era solo una facciata che ricopriva qualcosa di più grosso che scatenava e alimentava il disturbo alimentare stesso, solo che era più semplice essere malati piuttosto che affrontare i propri mostri che mi stavano divorando dall’interno. La pensai così per diverso tempo.

Consiglio musicale: I was wrong

Dedicato a chi si crede solo/a

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Notizie dal fronte – 6: il lento suicidio

Notizie dal fronte – 6: il lento suicidio

Il mio fisico stava cambiando ogni mese che passava, e nella mia mente iniziò a svilupparti un meccanismo di restrizione, mi ripetevo spesso: “se mangiando come mangio ora sto così in forma fisicamente, chissà come starei ancora meglio se rinunciassi a determinate cose”.
Il problema è che non si trattava di eliminare ipotetico cibo spazzatura per sostituirlo con qualcosa di più salutare, ma di diminuire le dosi, la variabilità dei cibi, e i pasti giornalieri stessi.
Tutto questo si andava ad abbinare, o forse era alimentato, da una solitudine crescente, una mente poco impegnata, diversi problemi in casa e il fatto che avessi anche iniziato ad andare in palestra.
Da lì a poco mi ritrovai a ripetermi: “beh, finché riuscirò a fare tutto quello che faccio (alzarmi, andare in palestra, un giretto pomeridiano magari per fare la spesa, e poco altro) con qualche foglia di lattuga nel corpo, andrò avanti così”.
Stavo entrando in un tunnel che mi avrebbe annientato, è una cosa che ti porta via tutto: libertà decisionale, voglia di fare, di relazionarsi col prossimo, ogni energia e forza.
Il problema è che questi due ultimi aspetti non sopraggiungono subito, l’organismo umano è una macchina perfetta, molto intelligente ed è attrezzata per la sopravvivenza, gli occorre molto tempo per andare in riserva, ma se per rompersi impiega cinque anni, gli occorrerà il triplo del tempo per riprendersi dagli abusi subiti, sempre che riesca a riprendersi.
All’inizio il controllo totale che si ha sul proprio corpo consegna una carica psicologica talmente forte che si riescono a sostenere sforzi fisici notevoli anche con poco o niente in corpo.
Quando ti ammali di anoressia, definita “lento suicidio”, questa all’inizio è come se ti tentasse, fa in modo di convincerti d’essere il solo modo giusto di vivere tendendoti tranelli come quello della forza di volontà e un morboso controllo psicologico sul proprio fisico che ti consegna direttamente tra le braccia della malattia.
Da quel momento smetti di esistere, l’esempio forse più calzante che posso fare è quello delle vecchie marionette: non sono loro a muoversi, si muovono al comando di un tizio che regge dei fili.
Ogni giorno che passava smettevo sempre più di vivere e lasciavo che gli schemi guidassero le mie abitudini che stavano diventando un’ossessione. Schemi che però non vivevo con senso d’oppressione, anzi, rappresentavano una culla, una struttura protettiva che mi esentava da ogni responsabilità decisionale: la dipendenza aveva creato la sua struttura portante.
Per circa sette anni la mia giornata tipo è stata la seguente: sveglia alle sei del mattino per avere il tempo di vegetare un paio d’ore sul divano prima di uscire; colazione misera, gli anni in cui la facevo si limitava ad un biscotto e un bicchiere di succo di frutta; alle otto in punto (vietato tardare un solo istante) uscivo per recarmi in palestra dove rimanevo dalle nove sino alle 10. Dovevo, e ripeto, dovevo rientrare a casa entro e non oltre le undici, per quale ragione? Perché la mia testa mi diceva così. Tra le undici e mezzogiorno dovevo essere in grado di prepararmi il pranzo e anche la cena, perché così non dovevo pensarci nel pomeriggio, e alle dodici in punto sedermi a tavola.
A livello alimentare, tra i ventuno e i ventisei anni fu il periodo migliore, nel senso che almeno facevo tre pasti al giorno, seppur miseri.
Non riesco a ricordare di preciso che cosa mangiassi, mi dovete scusare, ma non ha neanche molta importanza. Però ricordo che stavo sviluppando un interesse e desiderio crescente nei confronti della verdura, del minestrone surgelato soprattutto, rapido da preparare e che quindi poteva adattarsi perfettamente agli schemi mentali che mi avevano assorbito.
Dopo pranzo, ogni giorno per almeno cinque anni, si ripeteva lo stesso rituale: dopo esser stato in bagno anche contro un reale bisogno fisiologico nel tentativo di evacuare quel poco che avevo mangiato, mi buttavo sul divano a vedere la televisione fino verso le tre del pomeriggio.
Ma parallelamente al disturbo alimentare, in quegli anni si sviluppò un’altra dipendenza, quella dall’alcol, o comunque da un qualcosa che potesse stordirmi e farmi dormire per buona parte del pomeriggio.
L’inconsapevolezza dell’età, o il totale disinteresse per le conseguenze, un meccanismo alimentato dalla convinzione o speranza che, intanto, la mia vita sarebbe durata poco, mi ha portato in quegli anni a violentare il mio fisico, senza sapere cosa stessi facendo.
Dopo il misero pranzo, spesso eliminato attraverso sedute strategiche in bagno, mi calavo una bustina di antidolorifico accompagnata da un bicchiere del super alcolico che reperivo in casa, un cocktail che mi permetteva di bai-passare buona parte del pomeriggio per giungere il prima possibile alla fine della giornata.
Il problema è che la giornata prima o poi ricominciava sempre, ed era la fotocopia di quella appena passata.
Questo schema mi bastò per molti anni, mi dava un senso di sicurezza e protezione che però, ben presto, si tramutò in disperazione, una crescente solitudine e una profonda depressione.
Mi convinsi che la mia vita non mi avrebbe mai potuto regalare nulla di bello, che era già finita ancor prima di cominciare. In quei giorni eterni, tra il 2002 e il 2004, gradualmente, ma molto rapidamente, smisi di aver voglia di vivere.

Consiglio musicale: La guerra è finita

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Notizie dal fronte – 5: schemi

Notizie dal fronte – 5: schemi

Le amicizie per me sono sempre state croce e delizia, una corsa a metà strada tra la fatica di trovarne di sincere e l’incapacità di mantenerle a causa dei miei problemi o perché non rispecchiavo le aspettative di chi accettava di passare del tempo con me.
Con questo non voglio dire di essere esente da colpe, quando si soffre di mali oscuri, poco visibili all’occhio umano, ma che determinano il proprio essere, spesso si finisce per allontanare le persone senza neanche rendersene conto.
Negli anni mi sono reso conto di come mi senta maggiormente a mio agio nell’avere amicizie femminili, aspetto questo che persiste tuttora, forse per la quasi totale assenza della figura paterna, ed un legame maggiormente spiccato con mia mamma.
Mio fratello ha amicizie che si trascina fin dalle scuole elementari, io no, per sfortuna, per incostanza, perché mi stufavo facilmente delle modalità con le quali si passava il tempo.
Da un lato mi lamentavo molto della solitudine, non capivo perché dovesse essere quello il mio destino, ma da l’altro volevo stare da solo, quasi spaventato dall’impegno che avrebbe comportato un rapporto umano di qualche tipo.
Ma definire qualcuno amico o amica a vent’anni, ma anche a trentacinque, è un azzardo. Questa è un titolo che viene spesso usato con troppa leggerezza, sono pochi i fortunati che possono dire di aver trovato il proprio migliore amico o la migliore amica nel corso dell’adolescenza, e poi si tratta davvero di una fortuna?
Dopo tanti anni alla ricerca di persone vere, posso affermare con certezza che non esiste cosa più giusta del detto: “gli amici veri si contano sulle dita di una mano”, e aggiungo che è sempre bene lasciare libero il dito medio per ogni eventualità.
Io in trentacinque anni una mano non l’ho ancora riempita, non ho ancora capito se questa cosa sia positiva o negativa, se esserne felice oppure no, ma penso di aver imparato sulla mia pelle che avere tutto e subito rende la vita insipida e fa precipitare nella noia.
Però non sarebbe male ogni tanto una via di mezzo, perché spesso capita di incappare in eterni momenti di nulla, quando la sola cosa che ti resta è una stanza assordante da quanto è silenziosa, ritrovandoti a parlare con te stesso ad alta voce senza neanche rendertene conto pur di spezzare quella atmosfera.
Negli anni ho incontrato delle persone alle quali sono ancora molto legato, che ho perso di vista a causa del corso degli eventi, ma ciò non significa che non pensi più a loro e che non abbiano avuto un ruolo importante nella mia vita, e se un giorno gli dovesse capitare di leggere questo scritto mi auguro che si riconoscano tra queste parole.
Al termine degli studi però non contavo alcun amico, anche se gli ultimi due anni dell’alberghiero potevano considerarsi accettabili, questi non mi avevano riservato né amicizie, né altro.
Mi presi un anno sabbatico, come usa dire quando non si ha la minima idea di cosa si vorrebbe fare nella vita, e molti potrebbero anche sostenere che stia continuando da 15 anni, ma dipende dai punti di vista.
L’università era esclusa, e i cinque anni di istituto alberghiero mi avevano estirpato ogni passione verso la cucina. Cinque anni trascorsi a fare sempre le stesse cose, e gli ultimi due passati senza mai avere la possibilità di cucinare.
L’anno sabbatico fu un trampolino di lancio eccezionale per la mia malattia, per la prima volta nella mia vita non avevo impegni fissi, quindi avevo molto tempo per pensare e la favoletta di trovare un lavoro si rivelò presto essere, appunto, una favola.
Spiegare a parole quello che mi stava accadendo non è semplice, anche perché sul momento non me ne rendevo conto neanche io.
La costante solitudine, l’assenza di ogni tipo di impegno, il vuoto interiore che mi accompagnava togliendomi il respiro mi portarono a costruire tutta una serie di schemi per riuscire ad affrontare le giornate, schemi che molto presto sarebbero divenuti una prigione.

Consiglio musicale: Il mio dito medio 

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Notizie dal fronte – 1: guardando nel buio

Quando hai vent’anni senti di avere il mondo in pugno, pensi che non ti potrà mai capitare di star male o di ammalarti. Ora ne ho trentacinque e per la maggior parte del tempo sono inchiodato ad un letto, o comunque relegato in casa.
Il problema è che neanche a vent’anni facevo una gran vita, invece che stare a letto ero inchiodato a un divano, quasi sempre a passare le mie giornate davanti al televisore, per non pensare, per fare in modo che la sera giungesse il prima possibile e finalmente potessi tornare a dormire.
La differenza sostanziale tra ora ed allora è che a vent’anni avevo la salute, quella fisica almeno, ma non avevo voglia di vivere, desideravo solo che le giornate passassero il più rapidamente possibile senza riempirle di nulla in particolare.
Ora che avrei molte idee, la voglia e la volontà di fare tante cose non ho più la salute, persino rimanere fuori di casa per mezza giornata è diventata un’impresa.
Ho tentato di scrivere questa storia già diverse volte senza mai riuscire a giungere ad una conclusione, preoccupato del fatto di non riuscire nel mio intento.
Non sono uno scrittore, sono solo una persona che vorrebbe lasciare un messaggio, far sì che quello che ho dovuto passare e che sto affrontando ora possa servire ad altre persone per non commettere gli stessi errori, o per rimediare in anticipo rispetto a quanto non sono stato in grado di fare io.
Come mi chiamo non ha importanza, questa può essere la storia di molti, quel che conta è che sia in grado di trasmettere ciò che ritengo importante, ma se volete proprio darmi un nome potete chiamarmi C.
Quello che segue è il racconto della mia vita, una storia che potrebbe appartenere a molti, e le cui vicende mi auguro possano servire ad altrettanti.
Il mio problema principale è sempre stato la dipendenza, e probabilmente continua ad esserlo, le sole due cose che non mi hanno attirato sono sempre state il fumo e le droghe, sempre che medicinali e psicofarmaci non possano classificarsi come tali, che comunque ho sempre assunto contro voglia.
La dipendenza che mi ha reso schiavo, quella che ha provocato i danni alla mia salute per i quali ora sono costretto a vivere recluso in una prigione di carne, è quella dal cibo.
Per quindici o forse più anni ho sofferto di anoressia, che ora so esser stata la facciata di problemi ben più gravi, se possibile, maggiormente nascosti e misteriosi ai quali forse non riuscirò mai ad arrivare.
Quello che rimarrà per sempre un mistero, e vi garantisco che la cosa mi da parecchio fastidio, è che non idea di quando il tutto sia incominciato. L’ho dimenticato, l’ho voluto dimenticare o forse si tratta di una prigionia che si è costruita in più passaggi.
Ho riconosciuto di avere un problema intorno ai 20/22 anni, ma purtroppo non posso dire con esattezza quando iniziò la mia dipendenza, 13/14 anni, forse anche prima.
Quello che so è che ero un bambino sovrappeso, o come ti definiscono i simpatici compagni di classe negli anni peggiori della propria vita: “grassone”, “palla di lardo”, “ciccio bomba” ecc, a seconda della fantasia.
Non capirò mai quei genitori che si ostinano a dire ai propri figli di godersi gli anni di scuola, è l’età più bella che non tornerà mai più indietro, dicono.
Per fortuna che non ritorna, dico io, il termine degli studi per me è stato solo un sollievo, i soli anni di scuola che ricordo con piacere sono gli ultimi due precedenti alla maturità.
Il resto è stata una lenta agonia, sempre relegato a scarto, con pochi amici, per non parlare delle ragazze, anche se negli anni 80 e 90 le cose non erano veloci come adesso: a 14/15 anni erano proprio in pochi ad esser fidanzati o avere qualcosa del genere.
Io comunque non mi permettevo di pensarci. Sognavo, desideravo, ma come avrei potuto pensare che una ragazza si interessasse a me. La mia autostima è sempre stata pressoché inesistente, condizione questa rafforzata dalle continue prese in giro alle quali ero soggetto.
Sfortunatamente, per quanto cercassi di non pensare a certe cose, il mio desiderio di voler bene a qualcuno è iniziato molto presto, anche prematuramente direi, ma non potendolo esprimere e trasmettere ad una persona, tappavo queste carenze affettive in altro modo.
Ma non si trattava solo di questo, la mia dipendenza dal cibo era un insieme di malumori, scontenti, disagi, ostacoli che vedevo porsi in continuazione innanzi a me e che non ero in grado di superare.
Ero un bambino grasso, asmatico, pieno di tic nervosi, timido, insicuro e tutti questi aspetti si alimentavano l’uno con l’altro, rafforzandosi e sostenendosi a vicenda.
Non avevo interessi particolari, la mattina andavo a scuola e una volta tornato a casa vi rimanevo, ed è probabilmente nel corso delle medie che ho iniziato a sviluppare problemi con il cibo.
Ricordo che ogni giorno si ripeteva più o meno lo stesso rituale.
Dopo pranzo, quando mia mamma andava a stendersi per un oretta, io andavo in cucina, non importava che avessi fame o meno, avevo bisogno di qualcosa di dolce per arrestare altri desideri o soffocare dolori e delusioni.
Le abitudini alimentari della mia famiglia di certo non mi aiutavano, in casa erano sempre presenti numerosi prodotti industriali, e a me bastava aprire la credenza per trovarmi davanti svariate tipologie di merendine e biscotti semplici o farciti.
A quei tempi ero capace di finire un pacchetto da sei o da otto di merendine Kinder Ferrero o Mulino Bianco come se fossero mentine, non riuscivo a fermarmi a una o due e dopo venivo assalito dai sensi di colpa.
Non riporto i nomi delle marche per fare pubblicità gratuita, al contrario, questo blog e la storia che riporta hanno lo scopo di denunciare un sistema basato sull’apparenza, sul consumismo, sull’indifferenza verso il prossimo, sul non sapere e non volere più ascoltare, convinti che la cosa più semplice sia voltarsi dall’altra parte ignorando l’evidenza dei fatti.
Avrò modo di affrontare questi aspetti nel corso del racconto.
Ma tornando a quanto stavo narrando, ricordo che all’epoca i sensi di colpa non erano ancora riferiti all’aspetto fisico, al terrore di quali ricadute l’abbuffata avrebbe causato sul mio peso corporeo, stavo male per mia mamma, perché sapevo di deluderla nel comportarmi in quel modo.
La preoccupazione verso il prossimo, prima ancora che verso me stesso, avrebbe accompagnato tutta la mia vita, nel bene e nel male.

Consiglio musicale a tema: the grouch

Continua…

dedicato a chi si crede solo/a