Notizie dal fronte – 4: restrizioni

Mio padre ha sempre rifiutato l’idea che io potessi avere un problema, per lui sono sempre stato bene, era quello che ripeteva a se stesso, era quello che raccontava ai parenti quando chiedevano di me, anche quando era visibilmente evidente che cera qualcosa che non andava.
Accettata o no, la mia malattia vide la sua alba nella primavera del 95 senza che io me ne rendessi conto, e da lì a poco avrebbe iniziato a divorarmi.
Nei primi mesi di quell’anno mi ammalai più volte, nulla di grave, quelle botte di influenza tipiche dell’età contraddistinta dalla spavalderia e dalla scarsa cura di se stessi.
I miei febbroni però mi riducevano sempre uno straccio, avevo zero appetito, sudavo molto e stavo male anche per diversi giorni.
Questi episodi mischiati al fatto di trovarmi in piena età dello sviluppo mi portarono, involontariamente, a perdere peso. Fu in quel momento che iniziò tutto.
Quello che vedevo ora allo specchio era diverso e mi piaceva di più, non tanto per una questione di bellezza quanto di accettazione, capivo di stare meglio e in breve tempo sviluppai un pensiero malsano che puntava alla continua restrizione.
In testa mi rimbombava un solo quesito: “se levando le merendine sto così bene, figuriamoci come potrei diventare se eliminassi anche…”. Un pensiero che in breve tempo avrei applicato ad ogni singolo alimento sino a sviluppare un rapporto a due con la foglia di lattuga, ovviamente scondita.
Ma per giungere a quel rapporto simbiotico con la lattuga impiegai comunque ancora qualche anno, in verità nel corso delle scuole superiori il trend rimase circa lo stesso, anzi, gli ultimi due anni di istituto alberghiero riuscii anche ad affermare la mia presenza e a farmi qualche amico.
Con la perdita di peso avevo maturato un po’ più di sicurezza e stima in me stesso, soprattutto perché il mio aspetto era cambiato e con quello stava mutando anche il mio carattere, ma col senno di poi considero il primo dei due fattori una debolezza, perché bisognerebbe riuscire a credere in se stessi a prescindere da l’aspetto fisico.
Però non è semplice quando si vive a l’interno di una società basata sul mito dell’apparenza, quando si viene quotidianamente derisi da tutti, quando nessuna ragazza ne vuole sapere niente di te e tutto quello che ti rimane è una solitudine che ti spinge a perderti dentro te stesso.
Due episodi su tutti, tra il 98 e il 2000, contribuirono a darmi una prima, timida spinta fuori dal mio involucro di auto-ghettizzazione.
Fin da piccoli io e mio fratello (si, ho un fratello minore, ne parlerò più avanti) d’estate siamo sempre stati portati a Rimini, a luglio, e a Limone (Piemonte) in agosto.
Ho sempre preferito la seconda parte dell’estate perché significava stare in campagna, ma soprattutto passare un intero mese in compagnia dei miei nonni materni.
Il periodo a Rimini non mi ha mai entusiasmato particolarmente, il mare non mi piaceva e non mi piace tuttora, i passatempi offerti da questa città non hanno mai fatto per me, e poi, per chi ha un problema come il mio, mettersi in costume da bagno non è proprio la cosa più semplice.
Ma nell’estate del 98 accadde qualcosa di strano, quasi come fossi stufo di starmene rinchiuso nel mio guscio, avvicinai un gruppo di ragazzi che soggiornavano nel mio stesso albergo e, magicamente, quello che doveva essere l’ultimo anno in cui avrei seguito i miei genitori a Rimini, divenne il primo di 5 condivisi con una banda di amicizie sempre più numerosa e che mi regalò diverse emozioni.
Non so spiegarvi a parole cosa mi spinse ad avvicinare quei ragazzi, forza della disperazione forse, la fuga di un frammento di quella personalità che avrei sviluppato molti anni dopo.
Non lo so, ma sta di fatto che da quel momento avrei per sempre identificato i momenti in cui riuscivo a credere in me stesso attraverso un simbolo che potesse trasmettermi un senso di libertà: le ali dell’aquila.
Nella primavera del 2000, invece, mi mamma mi regalò, nel tentativo anche di scrollarmi dalla condizione che mi stava fagocitando, la possibilità di seguirla in uno dei suoi viaggi in Cina, precisamente a Pechino, città che ho avuto la fortuna di visitare tre volte fin’ora.
Il viaggio fu un’esperienza fenomenale, anche se fui testimone del cambiamento, in negativo, di un paese che stava subendo l’implacabile processo della globalizzazione, che divorava i templi antichi a favore della costruzione di McDonald’s, KFC, Burger King e molti altri fast food e catene commerciali.
Il 2000 era anche l’anno del diploma di maturità e il viaggio in Cina ispirò la tesina con la quale riuscii a diplomarmi al primo colpo, contro ogni pronostico, sacrificando ogni cosa, anche quei pochi pseudo amici che ero riuscito a farmi sopratutto grazie ad un’inaspettata vena sportiva.
Il mio sovrappeso mi portava spesso ad avere attacchi d’asma, che da quando inizia a dimagrire si fecero sempre più rari fino a sparire.
Questo mi portò a poter partecipare alle ore di educazione fisica che in quegli anni prevedevano partite di calcio a cinque.
All’improvviso tutti mi volevano, anche altre classi, non esisteva un portiere migliore di me, e prima che possiate fare battute, no, non ero più così grosso da prendere tutta la larghezza della porta.
La mia bravura era sicuramente dovuta agli anni di gioco passati con mio fratello, amante del calcio, che spesso mi trascinava a giocare anche quando non avevo voglia di far nulla.
Ho perso il conto di quante volte Alby (questo il nome di mio fratello) mi abbia raccolto da terra col cucchiaino, facendo da fratello maggiore a suo fratello maggiore. Penso di non essere mai riuscito a ricambiare a dovere.
La tesina che presentai all’esame di maturità, era incentrata sulla cucina regionale e il fenomeno della globalizzazione. Quest’ultima parte illustrava, con un già spiccato senso critico che mi avrebbe contraddistinto nel futuro, i cambiamenti che la Cina stava subendo a causa delle multinazionali e del “libero” mercato.
All’epoca non potevo saperlo, ma quello fu il primo passo verso ciò che sarei diventato, qualcosa che era latente dentro me stesso, ma che non sapevo ancora di possedere.
Mi diplomai, ma non cambiò assolutamente nulla, la solitudine era sempre la mia compagna più fedele, non avevo più amici, persi non mi ricordo neanche per quali ragioni, né tanto meno una fidanzata.
Un desiderio, quest’ultimo, che nutrivo già da diversi anni, dettato da questo mio bisogno quasi ossessivo di amare, che mi portava a ripetermi che massimo a ventiquattro anni mi sarei dovuto sposare, come se questo significasse non sentirmi mai più solo, e potesse rappresentare qualche effettiva garanzia di felicità eterna.

Consiglio musicale: Heart-Shaped Box

Dedicato a chi si crede solo/a

Continua…

Puntate precedenti:
Notizie dal fronte – 1: guardando nel buio
Notizie dal fronte – 2: l’inizio del tunnel
Notizie dal fronte – 3: stereotipi