Dopo il brutto viene il bello

Su di te potrebbero essere girati quei film che vanno molto in questi ultimi anni, concatenati tra di loro, con il finale di uno che introduce l’inizio di quello che verrà, perché una semplice trilogia non è sufficiente a raccontare la tua vita e, sopratutto, la persona che eri.
Ma so che a te non piacerebbero, ti stuferesti, preferivi le cose rapide a meno che non si trattasse di stare seduti a tavola a mangiare, però sono certo che un film di tre ore non l’hai mai visto.
Quindi ti prometto che sarò breve, anche perché le cose che contano c’è le siamo già dette nel corso di tutti gli anni passati insieme e sono stati molti, mai troppi, ma tanti, anche se non è la quantità di tempo trascorso insieme che ti rende importante, ma ciò che rappresenti per me, ed uso il presente perché continuerai ad esserlo.
Un mentore, il mio mentore, mi hai insegnato tutto ciò che so della vita, di come bisognerebbe provare a vivere, affrontare e reagire anche a quegli istanti da cui sembra che non ci si possa più riprendere.
Hai sempre detto che nella vita per cavarsela bisogna essere un po’ “abagascisti” e tu ne eri l’essenza.
Ricordo ancora quando ti dissero che avresti vissuto tranquillamente sino ad 80 anni, e di tutta risposta c’è ne hai regalati quasi 13 in più.
In questi casi si tende a recriminare, facendosi assorbire da pensieri tormentosi come quello del tempo: se ne sarebbe potuto passare di più assieme magari.
Ma questo rimpianto non mi tocca perché so di aver condiviso con te ogni istante possibile, bello e brutto che fosse: esultando insieme allo stadio, vegliando su di te in ospedale, trascorrendo quelle eterne estati con te e nonna, ascoltandoti mentre mi insegnavi la stagionalità di frutta e verdura…e sarò con te anche quel giorno, con in dosso la tua giacca di “Francis”, come dicevamo quando ero piccolo.
Mi hai insegnato cosa significhi resistere, non solo per esser stato un partigiano, ma per tutte le volte in cui ti saresti potuto arrendere, e ne avresti avuto tutte le ragioni, ma invece ti sei rialzato più forte di prima, pronto a tornare in campo per dare dei calci al pallone con i tuoi nipoti o raccogliere frutti nei boschi.
Ma in realtà non ti sei arreso neanche questa volta, devi solo aver capito che eravamo pronti ad accettare che ti prendessi un po’ di meritato riposo, intanto persone come te non se ne vanno mai veramente.
I nonni, già solo per il fatto di esserlo, sono un po’ dei supereroi, ma tu sei una di quelle persone che nascono una volta ogni cento anni se non di più.
Hai sempre detto che “dopo il brutto viene il bello”, perché ora te ne sei andato, ma persone come te continuano a vivere in chi resta ed ha avuto la fortuna di condividere un pezzo di cammino.
Dicevi sempre che “un bel gioco dura poco”, ma in questo caso ti sbagliavi, perché la vita insieme a te è stata spettacolare ed è durata anche a lungo.
Ciao Giumin, ciao nonno.

21/02/1924 – 28/12/2016

Notizie dal fronte – 3: stereotipi

La scuola non mi ha insegnato nulla, conosco alcuni stati e alcune capitali, so fare i calcoli e ricordo un po’ di avvenimenti storici, ma la vita e come vivere non sono cose che ti insegnano in quell’ambito, anche se dovrebbe essere la prima preoccupazione degli insegnanti, e prima ancora di quei genitori che spingono a proseguire gli studi.
C’è una canzone, che negli anni avrebbe sempre rappresentato molto per me, che esprime al meglio questo concetto e la volontà di vivere gli eventi invece che farsi vivere da essi.

Black man gotta lot a problems. But they don’t mind throwing a brick. White people go to school Where they teach you how to be thick. (The Clash – White Riot)

In pratica questo estratto della canzone dice, traduco letteralmente, “i neri non temono la lotta e non hanno paura a lanciare un mattone. I bianchi vanno a scuola a farsi insegnare come essere di spessore”,  uno spaccato della vita ne l’Inghilterra degli anni 70, una riflessione sull’agire con la propria testa consci dei problemi che vanno affrontati.
Il contrario di ciò che ti offre la scuola, surrogato del sistema, è esattamente questo, poche informazioni, una visione del mondo e una soltanto che un tempo prevedeva il diploma di maturità come obiettivo massimo, ma ora se non hai una laurea non sei nessuno e quando c’è l’hai ti ritrovi a fare i concorsi per diventare cassiere di McDonald’s, quando ti va bene.
Ma le cose importanti della vita, quelle che ti aiutano ad andare avanti e ad interpretare e affrontare le difficoltà, le ho apprese da mio nonno materno, mentre da mia madre ho imparato ad esprimermi e a relazionarmi col prossimo.
Queste sono le mie basi, cose che non ti insegneranno mai tra i banchi di scuola, da qui ho costruito e continuo a costruire me stesso.
Ma al termine delle scuole medie ero solo un ragazzo insicuro, preda di complessi di inferiorità, che veniva costretto a proseguire gli studi perché ormai non usava più fermarsi in terza media.
Io sarei voluto andare a lavorare, non volevo più saperne della scuola e dei nuovi compagni di classe che avrei trovato sul mio cammino.
I miei genitori ovviamente erano di un altro avviso, così scelsi, quasi per disperazione e sicuramente per esclusione, l’istituto alberghiero, il colmo considerando la malattia che avrei dovuto affrontare da lì a poco, ma ai tempi continuavo a non avere coscienza del problema.
Scelsi l’alberghiero anche perché non ho mai avuto voglia di studiare, quindi un vero e propri liceo era escluso a priori, ma soprattutto perché da qualche anno avevo iniziato a nutrire una qualche passione per la cucina, un interesse che mia nonna materna ha contribuito ad alimentare.
Da piccolo passavo molto tempo con i miei nonni materni che per molti versi mi hanno cresciuto. Da un lato mio nonno, commerciante di frutta e verdura, mi insegnava la stagionalità, a riconoscere quando un frutto fosse maturo e a prevedere i cambiamenti del tempo.
Mentre con mia nonna cucinavo, o meglio, la guardavo cucinare e quando potevo le davo una mano, e la cosa mi affascinava molto.
Sono stati i miei nonni materni, Lucio e Rosa, ad avermi insegnato i valori fondamentali della vita attraverso il modo in cui vivevano e avevano vissuto, anche attraverso i racconti di ciò che avevano passato in tempo di guerra.
Mio nonno è un partigiano, uso il presente perché non si smette mai d’esserlo, e si può dire che da lui abbia proprio imparato a resistere.
La guerra, diverse malattie, non l’hanno mai messo in ginocchio, si è sempre rialzato esprimendo una tenacia ed un impegno che rappresentano l’eredità più grande che mi potesse lasciare, anche se non sempre riesco a rendergli onore, ma se oggi sono ancora qua a scrivere della mia vita è solo grazie a lui
E ora che ricordo, fu proprio per mio nonno che decisi di continuare gli studi, sapevo che gli avrei dato una grossa delusione perché lui, ai suoi tempi, non possedeva i mezzi per studiare e la guerra gli tolse ogni minima opportunità di farlo.
Iniziai l’istituto alberghiero quindi e il primo anno fu un inferno, ma allora non potevo sapere che quello vero si sarebbe presentato da lì a poco, le radici però risalgono a quel periodo, tra il 94 e il 95.
Quando mi abbuffavo di nascosto mentre mia mamma dormiva, subito dopo pranzo senza alcun appetito, ma solo per placare una voragine che mi portavo dentro, mai e poi mai mi aveva sfiorato l’idea di avere un problema, ero goloso mi dicevo, cosa che confermavano anche i miei parenti.
A metà degli anni novanta l’anoressia e i disturbi alimentari in generale erano forse meno diffusi o conosciuti di quanto non lo siano ora o, se non altro, se ne parlava raramente, e quando questo capitava spesso veniva fatto con l’attenzione rivolta sopratutto al sesso femminile.
Pareva quasi che i disturbi alimentari dovessero essere una loro triste esclusiva, una prigione privata, un’etichetta che prima o poi ti agguanta, una condanna dettata dallo status, da come la società tende a stereotipare il corpo femminile.
Spot pubblicitari, televisione, film, modelle e vallette di turno, tutti stereotipi della nostra epoca che trasmettono un’immagine femminile privata di ogni soggettività e ridotta a un corpo che deve rispettare tassativamente determinati parametri e misure per essere accettato.
Questo è il messaggio che arriva agli adolescenti in quegli anni di oblio e che forse arriva tutt’ora, portando spesso a desiderare di immedesimarsi e prendere ispirazione da un personaggio di fantasia, piuttosto che da modelli imposti dalla società, ma questo processo di auto difesa lo spiegherò più avanti.
Il problema è che quando si è attanagliati da un’insicurezza che azzera ciò che sei e si vorrebbe disperatamente assomigliare a qualcun’altro, a quel punto le misure, il peso, l’aspetto e la bilancia diventano le ossessioni più grandi.
Ma questo vale tanto per una ragazza quanto per un ragazzo, anche se a livello sociale questa cosa ancora adesso viene poco accettata.
Ho aperto questo blog perché possa essere di un qualche aiuto o sostegno a chi si ritrova in quanto scrivo, quindi voglio lanciare un appello a chi magari in questo momento si trova in una situazione analoga.
Uscite allo scoperto, non abbiate paura di ammettere l’esistenza di un problema, non sto dicendo che sia semplice, al contrario, ma è il primo passo per risolverlo, e fatelo a testa alta, prima che sia troppo tardi e fieri di questo passo, perché rappresenta il primo di una lunga serie verso la libertà!

Consiglio musicale: White Riot

Dedicato a chi si crede solo/a

Continua…

Puntate precedenti:
Notizie dal fronte – 1: guardando nel buio
Notizie dal fronte – 2: l’inizio del tunnel

Notizie dal fronte – 1: guardando nel buio

Quando hai vent’anni senti di avere il mondo in pugno, pensi che non ti potrà mai capitare di star male o di ammalarti. Ora ne ho trentacinque e per la maggior parte del tempo sono inchiodato ad un letto, o comunque relegato in casa.
Il problema è che neanche a vent’anni facevo una gran vita, invece che stare a letto ero inchiodato a un divano, quasi sempre a passare le mie giornate davanti al televisore, per non pensare, per fare in modo che la sera giungesse il prima possibile e finalmente potessi tornare a dormire.
La differenza sostanziale tra ora ed allora è che a vent’anni avevo la salute, quella fisica almeno, ma non avevo voglia di vivere, desideravo solo che le giornate passassero il più rapidamente possibile senza riempirle di nulla in particolare.
Ora che avrei molte idee, la voglia e la volontà di fare tante cose non ho più la salute, persino rimanere fuori di casa per mezza giornata è diventata un’impresa.
Ho tentato di scrivere questa storia già diverse volte senza mai riuscire a giungere ad una conclusione, preoccupato del fatto di non riuscire nel mio intento.
Non sono uno scrittore, sono solo una persona che vorrebbe lasciare un messaggio, far sì che quello che ho dovuto passare e che sto affrontando ora possa servire ad altre persone per non commettere gli stessi errori, o per rimediare in anticipo rispetto a quanto non sono stato in grado di fare io.
Come mi chiamo non ha importanza, questa può essere la storia di molti, quel che conta è che sia in grado di trasmettere ciò che ritengo importante, ma se volete proprio darmi un nome potete chiamarmi C.
Quello che segue è il racconto della mia vita, una storia che potrebbe appartenere a molti, e le cui vicende mi auguro possano servire ad altrettanti.
Il mio problema principale è sempre stato la dipendenza, e probabilmente continua ad esserlo, le sole due cose che non mi hanno attirato sono sempre state il fumo e le droghe, sempre che medicinali e psicofarmaci non possano classificarsi come tali, che comunque ho sempre assunto contro voglia.
La dipendenza che mi ha reso schiavo, quella che ha provocato i danni alla mia salute per i quali ora sono costretto a vivere recluso in una prigione di carne, è quella dal cibo.
Per quindici o forse più anni ho sofferto di anoressia, che ora so esser stata la facciata di problemi ben più gravi, se possibile, maggiormente nascosti e misteriosi ai quali forse non riuscirò mai ad arrivare.
Quello che rimarrà per sempre un mistero, e vi garantisco che la cosa mi da parecchio fastidio, è che non idea di quando il tutto sia incominciato. L’ho dimenticato, l’ho voluto dimenticare o forse si tratta di una prigionia che si è costruita in più passaggi.
Ho riconosciuto di avere un problema intorno ai 20/22 anni, ma purtroppo non posso dire con esattezza quando iniziò la mia dipendenza, 13/14 anni, forse anche prima.
Quello che so è che ero un bambino sovrappeso, o come ti definiscono i simpatici compagni di classe negli anni peggiori della propria vita: “grassone”, “palla di lardo”, “ciccio bomba” ecc, a seconda della fantasia.
Non capirò mai quei genitori che si ostinano a dire ai propri figli di godersi gli anni di scuola, è l’età più bella che non tornerà mai più indietro, dicono.
Per fortuna che non ritorna, dico io, il termine degli studi per me è stato solo un sollievo, i soli anni di scuola che ricordo con piacere sono gli ultimi due precedenti alla maturità.
Il resto è stata una lenta agonia, sempre relegato a scarto, con pochi amici, per non parlare delle ragazze, anche se negli anni 80 e 90 le cose non erano veloci come adesso: a 14/15 anni erano proprio in pochi ad esser fidanzati o avere qualcosa del genere.
Io comunque non mi permettevo di pensarci. Sognavo, desideravo, ma come avrei potuto pensare che una ragazza si interessasse a me. La mia autostima è sempre stata pressoché inesistente, condizione questa rafforzata dalle continue prese in giro alle quali ero soggetto.
Sfortunatamente, per quanto cercassi di non pensare a certe cose, il mio desiderio di voler bene a qualcuno è iniziato molto presto, anche prematuramente direi, ma non potendolo esprimere e trasmettere ad una persona, tappavo queste carenze affettive in altro modo.
Ma non si trattava solo di questo, la mia dipendenza dal cibo era un insieme di malumori, scontenti, disagi, ostacoli che vedevo porsi in continuazione innanzi a me e che non ero in grado di superare.
Ero un bambino grasso, asmatico, pieno di tic nervosi, timido, insicuro e tutti questi aspetti si alimentavano l’uno con l’altro, rafforzandosi e sostenendosi a vicenda.
Non avevo interessi particolari, la mattina andavo a scuola e una volta tornato a casa vi rimanevo, ed è probabilmente nel corso delle medie che ho iniziato a sviluppare problemi con il cibo.
Ricordo che ogni giorno si ripeteva più o meno lo stesso rituale.
Dopo pranzo, quando mia mamma andava a stendersi per un oretta, io andavo in cucina, non importava che avessi fame o meno, avevo bisogno di qualcosa di dolce per arrestare altri desideri o soffocare dolori e delusioni.
Le abitudini alimentari della mia famiglia di certo non mi aiutavano, in casa erano sempre presenti numerosi prodotti industriali, e a me bastava aprire la credenza per trovarmi davanti svariate tipologie di merendine e biscotti semplici o farciti.
A quei tempi ero capace di finire un pacchetto da sei o da otto di merendine Kinder Ferrero o Mulino Bianco come se fossero mentine, non riuscivo a fermarmi a una o due e dopo venivo assalito dai sensi di colpa.
Non riporto i nomi delle marche per fare pubblicità gratuita, al contrario, questo blog e la storia che riporta hanno lo scopo di denunciare un sistema basato sull’apparenza, sul consumismo, sull’indifferenza verso il prossimo, sul non sapere e non volere più ascoltare, convinti che la cosa più semplice sia voltarsi dall’altra parte ignorando l’evidenza dei fatti.
Avrò modo di affrontare questi aspetti nel corso del racconto.
Ma tornando a quanto stavo narrando, ricordo che all’epoca i sensi di colpa non erano ancora riferiti all’aspetto fisico, al terrore di quali ricadute l’abbuffata avrebbe causato sul mio peso corporeo, stavo male per mia mamma, perché sapevo di deluderla nel comportarmi in quel modo.
La preoccupazione verso il prossimo, prima ancora che verso me stesso, avrebbe accompagnato tutta la mia vita, nel bene e nel male.

Consiglio musicale a tema: the grouch

Continua…

dedicato a chi si crede solo/a