Notizie dal fronte – 6: il lento suicidio

Il mio fisico stava cambiando ogni mese che passava, e nella mia mente iniziò a svilupparti un meccanismo di restrizione, mi ripetevo spesso: “se mangiando come mangio ora sto così in forma fisicamente, chissà come starei ancora meglio se rinunciassi a determinate cose”.
Il problema è che non si trattava di eliminare ipotetico cibo spazzatura per sostituirlo con qualcosa di più salutare, ma di diminuire le dosi, la variabilità dei cibi, e i pasti giornalieri stessi.
Tutto questo si andava ad abbinare, o forse era alimentato, da una solitudine crescente, una mente poco impegnata, diversi problemi in casa e il fatto che avessi anche iniziato ad andare in palestra.
Da lì a poco mi ritrovai a ripetermi: “beh, finché riuscirò a fare tutto quello che faccio (alzarmi, andare in palestra, un giretto pomeridiano magari per fare la spesa, e poco altro) con qualche foglia di lattuga nel corpo, andrò avanti così”.
Stavo entrando in un tunnel che mi avrebbe annientato, è una cosa che ti porta via tutto: libertà decisionale, voglia di fare, di relazionarsi col prossimo, ogni energia e forza.
Il problema è che questi due ultimi aspetti non sopraggiungono subito, l’organismo umano è una macchina perfetta, molto intelligente ed è attrezzata per la sopravvivenza, gli occorre molto tempo per andare in riserva, ma se per rompersi impiega cinque anni, gli occorrerà il triplo del tempo per riprendersi dagli abusi subiti, sempre che riesca a riprendersi.
All’inizio il controllo totale che si ha sul proprio corpo consegna una carica psicologica talmente forte che si riescono a sostenere sforzi fisici notevoli anche con poco o niente in corpo.
Quando ti ammali di anoressia, definita “lento suicidio”, questa all’inizio è come se ti tentasse, fa in modo di convincerti d’essere il solo modo giusto di vivere tendendoti tranelli come quello della forza di volontà e un morboso controllo psicologico sul proprio fisico che ti consegna direttamente tra le braccia della malattia.
Da quel momento smetti di esistere, l’esempio forse più calzante che posso fare è quello delle vecchie marionette: non sono loro a muoversi, si muovono al comando di un tizio che regge dei fili.
Ogni giorno che passava smettevo sempre più di vivere e lasciavo che gli schemi guidassero le mie abitudini che stavano diventando un’ossessione. Schemi che però non vivevo con senso d’oppressione, anzi, rappresentavano una culla, una struttura protettiva che mi esentava da ogni responsabilità decisionale: la dipendenza aveva creato la sua struttura portante.
Per circa sette anni la mia giornata tipo è stata la seguente: sveglia alle sei del mattino per avere il tempo di vegetare un paio d’ore sul divano prima di uscire; colazione misera, gli anni in cui la facevo si limitava ad un biscotto e un bicchiere di succo di frutta; alle otto in punto (vietato tardare un solo istante) uscivo per recarmi in palestra dove rimanevo dalle nove sino alle 10. Dovevo, e ripeto, dovevo rientrare a casa entro e non oltre le undici, per quale ragione? Perché la mia testa mi diceva così. Tra le undici e mezzogiorno dovevo essere in grado di prepararmi il pranzo e anche la cena, perché così non dovevo pensarci nel pomeriggio, e alle dodici in punto sedermi a tavola.
A livello alimentare, tra i ventuno e i ventisei anni fu il periodo migliore, nel senso che almeno facevo tre pasti al giorno, seppur miseri.
Non riesco a ricordare di preciso che cosa mangiassi, mi dovete scusare, ma non ha neanche molta importanza. Però ricordo che stavo sviluppando un interesse e desiderio crescente nei confronti della verdura, del minestrone surgelato soprattutto, rapido da preparare e che quindi poteva adattarsi perfettamente agli schemi mentali che mi avevano assorbito.
Dopo pranzo, ogni giorno per almeno cinque anni, si ripeteva lo stesso rituale: dopo esser stato in bagno anche contro un reale bisogno fisiologico nel tentativo di evacuare quel poco che avevo mangiato, mi buttavo sul divano a vedere la televisione fino verso le tre del pomeriggio.
Ma parallelamente al disturbo alimentare, in quegli anni si sviluppò un’altra dipendenza, quella dall’alcol, o comunque da un qualcosa che potesse stordirmi e farmi dormire per buona parte del pomeriggio.
L’inconsapevolezza dell’età, o il totale disinteresse per le conseguenze, un meccanismo alimentato dalla convinzione o speranza che, intanto, la mia vita sarebbe durata poco, mi ha portato in quegli anni a violentare il mio fisico, senza sapere cosa stessi facendo.
Dopo il misero pranzo, spesso eliminato attraverso sedute strategiche in bagno, mi calavo una bustina di antidolorifico accompagnata da un bicchiere del super alcolico che reperivo in casa, un cocktail che mi permetteva di bai-passare buona parte del pomeriggio per giungere il prima possibile alla fine della giornata.
Il problema è che la giornata prima o poi ricominciava sempre, ed era la fotocopia di quella appena passata.
Questo schema mi bastò per molti anni, mi dava un senso di sicurezza e protezione che però, ben presto, si tramutò in disperazione, una crescente solitudine e una profonda depressione.
Mi convinsi che la mia vita non mi avrebbe mai potuto regalare nulla di bello, che era già finita ancor prima di cominciare. In quei giorni eterni, tra il 2002 e il 2004, gradualmente, ma molto rapidamente, smisi di aver voglia di vivere.

Consiglio musicale: La guerra è finita

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Puntate precedenti:
Notizie dal fronte – 1: guardando nel buio
Notizie dal fronte – 2: l’inizio del tunnel
Notizie dal fronte – 3: stereotipi
Notizie dal fronte – 4: restrizioni
Notizie dal fronte – 5: schemi

Notizie dal fronte – 5: schemi

Le amicizie per me sono sempre state croce e delizia, una corsa a metà strada tra la fatica di trovarne di sincere e l’incapacità di mantenerle a causa dei miei problemi o perché non rispecchiavo le aspettative di chi accettava di passare del tempo con me.
Con questo non voglio dire di essere esente da colpe, quando si soffre di mali oscuri, poco visibili all’occhio umano, ma che determinano il proprio essere, spesso si finisce per allontanare le persone senza neanche rendersene conto.
Negli anni mi sono reso conto di come mi senta maggiormente a mio agio nell’avere amicizie femminili, aspetto questo che persiste tuttora, forse per la quasi totale assenza della figura paterna, ed un legame maggiormente spiccato con mia mamma.
Mio fratello ha amicizie che si trascina fin dalle scuole elementari, io no, per sfortuna, per incostanza, perché mi stufavo facilmente delle modalità con le quali si passava il tempo.
Da un lato mi lamentavo molto della solitudine, non capivo perché dovesse essere quello il mio destino, ma da l’altro volevo stare da solo, quasi spaventato dall’impegno che avrebbe comportato un rapporto umano di qualche tipo.
Ma definire qualcuno amico o amica a vent’anni, ma anche a trentacinque, è un azzardo. Questa è un titolo che viene spesso usato con troppa leggerezza, sono pochi i fortunati che possono dire di aver trovato il proprio migliore amico o la migliore amica nel corso dell’adolescenza, e poi si tratta davvero di una fortuna?
Dopo tanti anni alla ricerca di persone vere, posso affermare con certezza che non esiste cosa più giusta del detto: “gli amici veri si contano sulle dita di una mano”, e aggiungo che è sempre bene lasciare libero il dito medio per ogni eventualità.
Io in trentacinque anni una mano non l’ho ancora riempita, non ho ancora capito se questa cosa sia positiva o negativa, se esserne felice oppure no, ma penso di aver imparato sulla mia pelle che avere tutto e subito rende la vita insipida e fa precipitare nella noia.
Però non sarebbe male ogni tanto una via di mezzo, perché spesso capita di incappare in eterni momenti di nulla, quando la sola cosa che ti resta è una stanza assordante da quanto è silenziosa, ritrovandoti a parlare con te stesso ad alta voce senza neanche rendertene conto pur di spezzare quella atmosfera.
Negli anni ho incontrato delle persone alle quali sono ancora molto legato, che ho perso di vista a causa del corso degli eventi, ma ciò non significa che non pensi più a loro e che non abbiano avuto un ruolo importante nella mia vita, e se un giorno gli dovesse capitare di leggere questo scritto mi auguro che si riconoscano tra queste parole.
Al termine degli studi però non contavo alcun amico, anche se gli ultimi due anni dell’alberghiero potevano considerarsi accettabili, questi non mi avevano riservato né amicizie, né altro.
Mi presi un anno sabbatico, come usa dire quando non si ha la minima idea di cosa si vorrebbe fare nella vita, e molti potrebbero anche sostenere che stia continuando da 15 anni, ma dipende dai punti di vista.
L’università era esclusa, e i cinque anni di istituto alberghiero mi avevano estirpato ogni passione verso la cucina. Cinque anni trascorsi a fare sempre le stesse cose, e gli ultimi due passati senza mai avere la possibilità di cucinare.
L’anno sabbatico fu un trampolino di lancio eccezionale per la mia malattia, per la prima volta nella mia vita non avevo impegni fissi, quindi avevo molto tempo per pensare e la favoletta di trovare un lavoro si rivelò presto essere, appunto, una favola.
Spiegare a parole quello che mi stava accadendo non è semplice, anche perché sul momento non me ne rendevo conto neanche io.
La costante solitudine, l’assenza di ogni tipo di impegno, il vuoto interiore che mi accompagnava togliendomi il respiro mi portarono a costruire tutta una serie di schemi per riuscire ad affrontare le giornate, schemi che molto presto sarebbero divenuti una prigione.

Consiglio musicale: Il mio dito medio 

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